giovedì 26 settembre 2013

Lo Spettatore Occasionale alle prese con i Grandi Antichi: Call of Cthulhu (2005)



H.P. Lovecraft è stato uno scrittore americano di inizio novecento, mai esploso in vita. 
Esploso nel senso di divenuto famoso. Non esploso tipo tritolo.

Ciao a tutti, sono Lovecraft. Non sono mai esploso in vita. Nel senso di diventato famoso, non del tritolo.

Fu amico di Bloch (l’autore di Psycho), grande estimatore di Poe, ispiratore di un’intera generazione di autori horror e weird, bastardo retrogrado razzista e antisemita. Tralasciando l’ultima parte della sua breve introduzione (che me lo fa odiare come essere umano), Lovecraft fu il visionario creatore di un universo caustico e nichilista, popolato da Dei dimenticati che attendono il giusto momento per tornare a calpestare la Terra. Il suo Orrore Cosmico è ancora oggi efficace e disturbante, malsano e morboso, affascinante e deprimente al tempo stesso.

Il cinema è un’arte che prevede la creazione di immagini in movimento, correlate tra di esse, caratterizzate da una trama e da dettagli tecnici dei quali immagino vi freghi meno di zero.
Ma forse questo lo sapete già.

Il cinema ha spesso attinto alla narrativa per cavar fuori idee per pellicole da distribuire sul mercato. Edgar Allan Poe è stato amato dalla Hammer, poi da Bava, Fulci, Argento e così via. Lovecraft ha ispirato molto il cinema, senza mai riuscire a essere tradotto in maniera decorosa. Tipo che gli adattamenti cinematografici di Lovecraft sono delle merde. 

Ciao ciao, gente! Non sono una pellicola basata sui lavori di Lovecraft, sono uno Str...o normale!


Non c’è nemmeno da discutere.
Salverei Re-Animator, se proprio dovessi dirne uno, anche se sconfina nel campo del demenziale, nella commedia nerissima a sfondo splatter. Minchia, che definizione.

Ora smettete di sbadigliare che passiamo alla recensione.

Il cardine della narrativa di Lovecraft ruota intorno al culto segreto di Dei primigeni, chiamati Antichi, Grandi Antichi o Vecchi. Questi Dei hanno un profeta, che si chiama Cthulhu.
Cthulhu è un gigante con ali di drago, corpo antropomorfo, artigli, testa di polipo. Gigante nel senso che è alto come una montagna. È fatto di una materia che non può essere distrutta. Dorme sepolto sotto l’oceano, in una città morta che si chiama R’Lyeh. Capito? Non hanno come profeta Ezechiele o San Giovanni, questi Antichi, ma un titano mostruoso che schiaccia le città come fossero cacche di cane. Uno a zero per gli Antichi.

Io sono Cthulhu. Nella antica lingua di R'Lyeh il mio nome significa: "Non rompete il cazzo".


“Il Richiamo di Cthulhu” è il racconto con il quale Lovecraft tenta di collegare tutta la propria narrativa precedente in un universo tematico univoco, e getta le basi per storie appartenenti al Mito che scriverà (o riscriverà per altri autori, come revisore di bozze) negli anni a venire.
Il racconto è apprezzabile ancora oggi, molto inquietante, terribile al punto giusto e con un climax mostruoso nel terzo atto.
Manco a farlo apposta, questo racconto mai era stato approcciato dal cinema, che ha preferito saccheggiare storie minori per regalarci chicche di letame mica da ridere.
Nel 2005 la HPL Historical Society realizza un film dal titolo The call of Cthulhu: attori non professionisti, scarsi mezzi, tanta fedeltà al testo di partenza, grande conoscenza del corpus letterario del Nostro e una sconfinata passione.
Ah, già: lo girano in bianco e nero come fosse un film degli anni venti. Per la precisione, un film espressionista. 

Non sembra roba tipo anni venti?


Risultato: un’opera davvero magnifica. Magnifica dal punto di vista estetico, perché aderisce perfettamente ai canoni dell’espressionismo che omaggia (con sequenze che sembrano rubate a Il gabinetto del Dottor Caligari o Lo studente di Praga o ancora Nosferatu di Murnau.); magnifica dal punto di vista narrativo, perché rispetta la fonte sia nel dipanarsi della vicenda che nella struttura del racconto (il racconto originale è diviso in tre parti, tre microracconti fatti da personaggi diversi, tre differenti punti di vista, parti di un mosaico che soltanto alla fine in parte si ricomporrà; il film mantiene la struttura tripartita e offre la stessa molteplicità di punti di vista); magnifica dal punto di vista della suggestione, perché pur utilizzando un linguaggio ostico come quello del film muto, riesce a trasmettere l’inquietudine e il senso di minaccia che la storia crea. 

Oh, il prodigioso effetto speciale alla Mucciaccia!


Stiamo parlando di un film muto, nel quale gli attori non parlano se non attraverso cartelli inseriti tra una breve sequenza e l’altra, non è esattamente un film di Michael Bay, però tiene desta l’attenzione e intriga. La fotografia è molto curata e contribuisce a scolpire sul volto degli attori emozioni e sensazioni, veicolandole al pubblico in maniera forte e convincente; scene oniriche e avventurose sono realizzate immaginando di avere gli strumenti tecnici dell’epoca, quindi con effetti ottici quali prospettive forzate, minimi movimenti di macchina, mimica esasperata, giochi di luce e animazioni a passo uno.

Ovvio che al culmine della tensione, nella terza parte, quando effetti speciali più moderni avrebbero aumentato la resa emozionale delle scene, forse il film perde un po’ di potenza, ma è un difetto lieve; nel complesso si tratta di uno dei più riusciti adattamenti cinematografici che abbia visto (considerando l’aderenza alla fonte).
E poi Cthulhu non è mai stato condannato per frode fiscale.
Provaci, a condannare Cthulhu per frode fiscale. 

Condannami, se riesci. Forza. Ti sfido.


In conclusione, se siete alla ricerca di un film muto semisconosciuto, che dura poco, ha effetti speciali farlocchi (tipo teli di tessuto mossi da ventilatori per ricreare le onde del mare, un mostro realizzato in stop motion), attori che non avete mai visto e una colonna sonora senza Rihanna, Lady Gaga o uno di quei giovinastri che fanno musica senza cuore (oh, Bill Hicks, quanto maledettamente avevi ragione), allora questo film fa per voi.
Se invece non ve ne frega una ceppa di cinema, Lovecraft, espressionismo, stop motion e Cthulhu, guardatevi qualcos’altro.
Cazzo ne so, guardatevi Sotto Assedio.

Tra l’altro, qualche anno dopo (2011) i nostri eroi della HPLHS ci riprovano con il racconto The Whisperer in Darkness: sempre bianco e nero, sempre attori non professionisti, sempre pochi fondi. Non citano più l’espressionismo tedesco, ma i film americani con argomento soprannaturale degli anni cinquanta. Il racconto originale è molto bello. Il film no. NO. Prima metà ok. Poi NO. No, perché da un certo punto in avanti ha una deriva action poveraccia e malrealizzata; si stacca rumorosamente dalla fonte e imbocca una strada incerta, tentando nel finale di metterci una pezza. E poi i mostri in CGI farlocca… Preferisco non vedere nulla. Preferisco gommapiuma, lattice, pupazzoni fatti a cazzo. CGI cagosa in un film del genere no. 

Ma sono davvero così brutto? E se mi pettino diverso?


Un saluto anche dal Sommo Cthulhu.

Ciao ciao, statemi bene.


giovedì 19 settembre 2013

Il Cittadino Occasionale: Erezioni al Discorso di Berlusconi



Reazioni.
Volevo dire Reazioni.

Finalmente ieri pomeriggio Silvio ha rotto il silenzio e si è presentato a noi, suoi figli, con un videomessaggio da brividi.

Tutti insieme: E Santanché Olè, Santanché Olè, Santanché Olè


Chi si aspettava che facesse cadere il Governo si è preso una bella sbertucciata: Silvio, miglior statista degli ultimi 150 anni, non ha nemmeno menzionato il governo, neppure alluso a una eventuale crisi, ha solo spernacchiato i giudici e i sinistri Comunisti, creature mitologiche che assediano le nostre vite.
Ah, sì: poi ha rilanciato Forza Italia.
Ora scusatemi un secondo perché non resisto più, devo smettere di scrivere, uscire di casa, sventolare il bandierone e
RIDERE.
RIDERE A CREPAPELLE.

Oddio. Oddio, non so se ce la faccio.

Dovete sapere che questo post inizialmente avrebbe dovuto essere una sorta di telecronaca. Una roba tipo partita di calcio, con commenti scanditi dal minutaggio. Poi ci ho ripensato, ci ho dormito su, ho letto alcuni commenti, interventi di adepti del Silvianesimo, blog, post sulla pagina Facebook di FI e, soprattutto, ho ascoltato Giovanardi ieri sera da Cruciani (“La Zanzara”, Radio24).
Giovanardi, che, qualora ve lo foste perso, ha paragonato Silvio a Nelson Mandela.
Giovanardi, per l’amor del cielo.
Giovanardi.

Devo scrivere davvero qualcosa sotto una foto del genere?


Domanda: ma Capezzone è morto? Dov’è? Cosa sta combinando in questi giorni? È malato? Perché non interviene, non fa nulla, non scalpita, non aderisce a Forza Italia? Sono preoccupato.

Mi sono riletto per voi il discorso della Discesa in campo.
E ho ascoltato e letto e riletto il nuovo discorso, quello di ieri.

Io dividerei i principi fondanti del Silvianesimo in due. L’antico testamento (discorso del ’94) e il nuovo testamento (discorso del 18 settembre 2013). La cosa buffa è che non cambia una fava.
Zero.
Almeno in profondità. Superficialmente, forse, qualcosina… Nel secondo si chiarisce un po’ meglio che ci troviamo di fronte a una religione, specialmente quando Silvio dice:


Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto.”


Chissene della politica, qua stiamo parlando di missionari. Religione, ve l’avevo detto, no? Non è Berlusconismo, è Silvianesimo. Nella religione (così come nel Mito) la storia non ha alcuna rilevanza, perché sono leggende e fede a costituire le basi per l’etica e la cultura di una società. La nostra etica e la nostra cultura si fondano su Forum, Il pranzo è servito, Bim Bum Bam, Il Grande Fratello, La Corrida, Drive In.
Vai così, Silvio.
Poi però si scade anche nella minaccia, eh. Perché il nostro profeta dice questa cosa qua:


“impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto


E quindi io mi chiedo, ma che stai a scherzà?
Ma chi è che ti ha sottratto i voti? Capezzone, dove sei? Giovanardi?
Parentesi Giovanardi: ieri sera il mito Giova ha detto che non entrerà in Forza Italia, che rimarrà nel PDL perché lui è uno dei fondatori, che il PDL non può sparire così, che semmai affiancherà Forza Italia, e poi si è lanciato in un’orazione contro la giustizia italiana, che ha definito stalinista e nazista. Ecco cha ha già fatto suo il dettame del Silvianesimo, ovvero:


“Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio.
Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari.”


Giovanardi, sei fuori.
Sei fuori perché tu usi parole di odio e noi siamo il partito dell’amore. Capito, Giovanardi? Hai un cuore arido, non c’è spazio per te nei nostri ranghi. Pussa via.

Facciamo un passo indietro per indagare i dogmi di questo partito amorevole e speranzoso.
Perché Silvio ne ha per tutti, mica soltanto per i giudici e i comunisti, eh?


“Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia.”


Sono confuso.
Partito dell’amore, strigliata ai compagni. Compagni nel senso di colleghi, politici di coalizione, menti affini. Non compagni in senso comunistoide.

Poi c’è il passaggio che preferisco, un capolavoro funambolico di arrampicata su specchi con capriola lessicale carpiata su concetti ritriti:


“Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.”


Cazzo. La via giudiziaria al socialismo non ammette repliche, poi c’è quel cappello “è una loro dichiarazione” a sancirne una volta per tutte la veridicità. Inoltre abbiamo sempre quel simpatico riferimento al fatto che non sono stati eletti, perché, si sa, se sei eletto PUOI FARE IL CAZZO CHE TI PARE, tanto sei stato eletto, no?
Mamma mia, gente, sto quasi male.
A un certo arriva il principio di infallibilità, buttato lì in mezzo a quella che sembra la propria dichiarazione d’innocenza.


“io non ho commesso alcun reato,
io non sono colpevole di alcunché,
io sono innocente,
io sono assolutamente innocente”


Quella frase, io non sono colpevole di alcunché, è il primo comandamento, la pietra angolare del culto. Silvio non è, né può essere colpevole. Perché egli è l’Eletto (nel senso di vincitore delle elezioni). Chi viene legittimato dal popolo non può essere giudicato, perché non è soggetto alle leggi degli uomini comuni. Quindi anche se infrange le leggi, non può essere sanzionato. In fondo, Forza Italia è il partito dell’amore, lo dice lui stesso. Nel partito dell’amore non esiste spazio per il livore, la rabbia, la deriva giustizialista. Ci sono altre cose. L’amore, la famiglia, i valori cristiani.

Immaginiamo di porre un quesito a Silvio: del tipo, siamo giornalisti, e durante una conferenza stampa in cui enuncia questo suo programma politico-mistico possiamo porre una sola domanda.
La mia domanda sarebbe: Come si configura la faccenda di spogliarelli, puttane minorenni, pompini, concussione, frode fiscale, Emilio Fede, Lele Mora, Noemi, gente in maschera che si denuda di fronte a torme di vecchi bavosi... come si configura tutto questo in relazione ai valori cristiani e la famiglia e la patria e antani? Lo chiederei in una prospettiva del tutto laica, non sono credente, però mi piacerebbe capire. Ci sarà un nesso, magari mi sfugge. Farsi succhiare il pendolo = onorare i valori cristiani. Trovate l’errore.
Il discorso è molto lungo, e devo dire che vedere Silvio che lo pronuncia è sconvolgente. Il Messia è l’oscena caricatura dell’Uomo che nel ’94 scese in campo: sembra una mummia, un manichino, uno di quei pupazzi di una trasmissione che faceva satira politica su Sky (“Gli sgommati”). Trascende l’umano, quasi, con tutto quel trucco in faccia che azzera le rughe e conferisce al viso un aspetto immutabile ed eterno.  Anche spaventoso. Ormai Silvio non è più Berlusconi, è un’idea, un concetto incarnato, la concreta rappresentazione di ciò che voleva essere a inizio carriera. Il self made man che a furia di pugnette diventa cieco e sordo al mondo, essendo lui stesso un mondo (di interessi, di Ego, di ricchezza, di potere). 
Non riconosce nulla di giusto all’infuori di ciò che partorisce: ciò che è giusto è ciò che parte o giunge a Lui. È totalmente autoreferenziale. Ritiene di poter modellare le menti di chi lo ascolta con semplicità, per cui utilizza strategie verbali e retoriche precise e sempre uguali a se stesse. Pause, parole accentuate, movimenti delle mani, mimica facciale (quella poca che gli è rimasta, ovvero “occhi aperti” oppure “occhi chiusi”), tutto questo serve a rinforzare la comunicazione e a controllare chi accetta di farsi soggiogare da Lui. A chi minchia gliene frega della Banca Rasini, di Mangano, Dell’Utri, Previti, Gelli, P2, P3, Verdini, Scajola, Mamma Rosa, Marina, Ruby, Mills, Razzi, Scilipoti, Micaela Biancofiore, Capezzone, Triccheballacche… Lo sfondo non conta se stai osservando le piroette di un grande ballerino: è l’atto in sé che cattura l’attenzione, non il contesto. Però in politica un po’ dovrebbe contare, il contesto, dico bene?
NO.
Perché questa roba qua non ha niente a che fare con la politica. E lo str…ano inquilino di Villa San Martino ci gioca anche sopra, il bastardo, con il suo metadiscorso di ‘sta gran fungia di minchia:


“ (…) occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro.”


Che raffinata trappola, amico mio. E chi è che la sta sporcando? Chi è che ha governato per quasi vent’anni? Fammi indovinare: tu! E anche questo lo dice lui:


“ (…) un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo.
Ero io.”


E ‘sto cazzo? Ci starebbe benissimo, credo. Un bello STO CAZZO finale, a sancire che la cifra dell’Italia oggi è una caciara senza via di uscita.
Tutto serio, faccia di pietra, sguardo di brace, ecco che dice: ERO IO, e poi, subito dopo, con un gran sorriso, STO CAZZO. Avrei immediatamente preso la tessera di Forza Italia. Ma proprio seduta stante.
Purtroppo le cose sono andate diversamente.
E il triplice Forza Italia finale?
Leggiamo un momento il passaggio:


“E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.”


Qua mi tira in ballo Dio, il pio Silvio Berlusconi. Mi arriva a scomodare il concetto di divinità per dire che la sentenza è sbagliata. Dio vuole l’uomo libero, ergo Berlusca deve essere libero, tutti devono essere liberi. Basta Giudici Corrotti, desiderosi di Giustizia. Basta altri partiti, che agiscono per mero interesse, date tutto in mano a lui, che ha una gran voglia di tenere una cosa tra le dita.
Non la salamella reale, non il lungo mattarello lombardo, non il solerte cavaliere pelato compagno di mille scorrerie in praterie di pelo, nossignori. Vuole prendere in mano un’altra cosa:


Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia.
Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.”


Giovanardi lo ha paragonato a Nelson Mandela. Posso scriverlo ancora una volta? Giovanardi LO HA PARAGONATO A NELSON MANDELA.

Oh, Silvio, Silvio, Silvio. Sai che cosa mi piacerebbe che fosse quel trittico di Forza Italia uscito dalla tua bocca? Il triplice fischio sulla tua era. Partita finita, anche i supplementari.
Lascia stare l’Italia, se la ami.
Voglio parlarti con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore.
Ci si guarda negli occhi, io e te. Ci si guarda a lungo.
Poi alla fine, nel silenzio complice che si è venuto a creare, io ti dico:
“Zio, hai rotto il cazzo.”

martedì 17 settembre 2013

Lo Spettatore Occasionale e la nuova opera di Pippy Superbracherone

Oggi vorrei parlarvi di un film per tutta la famiglia, visione ideale per un dopo pranzo insolito, tutti abbracciati sul divano sotto una calda coperta.
Il film si intitola “Frankenstein’s Army”.


Sobrio esempio di cinema per tutta la famiglia.


Trama: durante la seconda guerra mondiale un manipolo di soldati russi riceve una richiesta di soccorso via radio, raggiunge il luogo comunicato, finisce tra le grinfie di mostri realizzati da un pazzo incrociando cadaveri di nazisti con elementi meccanici tipo trapani, cesoie, carri armati, cavi dell’alta tensione.
Moriranno (quasi) tutti.
Il primo riversando metri di intestino in un capannone.
Non è lo spettacolo ideale per riunire grandi e piccini?

NO, NON LO È.

Frankenstein’s Army (2013) di Pippy Superbracherone –volevo dire Richard Raaphorst è una cosa strana. Ma proprio strana strana strana Seguendo la moda dei FF, Found Footage, Filmato Ritrovato, il buon Richard non si pone alcun problema in merito alla verosimiglianza della questione: esistevano nei primi anni quaranta cineprese portatili? A colori? Chissene. Lui gira un FF ambientato nella seconda guerra mondiale. C’è sempre un soldatino che porta la cinepresa e segue la compagnia, la scusa è che Stalin ha ordinato un filmato di propaganda e il tizio è incaricato di fornire materiale.
Credibile? Assolutamente zero.

Siate cortesi, gentiluomini, mentre appronto il mio cineocchio portatile di dimensioni ridotte.

Io lo stimo già per questo.
La storia in realtà non è molto articolata. Cioè, non è qualcosa che vi possa lasciare battute memorabili o colpi di scena inaspettati. Ci sono persone che vengono macellate, mostri sempre più bizzarri, un discendente del dottor Frankenstein. Fine. Ah, dimenticavo: una sbracatissima satira politica. Abbozzata. Messa insieme alla bell’e meglio (ah ah ah ah ah ah ah ah).
La battuta sopra fa schifo e la capiranno solo le due o tre persone al mondo che hanno visto questo film.

Ma che cosa eleva Frankenstein’s Army al di sopra della media dei film horror d’oggigiorno? Signori miei, la creatività.
CRE-A-TI-VI-TA’.
Gli esseri che popolano la pellicola sono incubi in carne e ossa, ibridi umano meccanici senza volto, animati da cavi elettrici penzolanti; si trascinano lungo corridoi bui, capannoni deserti, chiese abbandonate, aggrediscono senza pietà e senza minima considerazione dei rischi. Sono creature a metà strada tra i Cenobiti di Hellraiser e un tagliaerbe, un coltello elettrico, pinze giganti spremiteste. Sono la ciliegina sulla torta del film: li amerete. Ve ne cito due soltanto, per mettervi appetito. L’uomo-pentola (ovvero un pentolone con le gambe che segue il dottore intercettando pezzi di cadaveri scartati dai suoi esperimenti) e la donna-orsacchiotto (ovvero testa di donna ghignante attaccata a corpo di orsacchiotto di pezza, per gli ordini scrivete nei commenti indirizzo e quanti esemplari volete).

Con una fotografia invecchiata grazie al prodigioso intervento del calcolatore (attenzione: ironia inside), una regia minimale e un decor sublime, Raaphorst ci conduce per mano verso il basso, in una discesa inarrestabile attraverso la quale ci mostra il degrado e la corruzione che la guerra procura agli individui, fino al segmento finale del film, nel quale Roden nel ruolo di Frankenstein regala uno dei più deliranti monologhi da mad scientist che avrete la possibilità di ascoltare e gustare. C’è una buona dose di ironia in Frankenstein Army, condita con un gore davvero estremo. Tipo bassa macelleria. Se voltete concedervi un horror sopra le righe, visivamente nuovo e sorretto da buoni effetti speciali, andate sul sicuro e gettatevi su Frankenstein’s Army!

Non vuoi prendermi in braccio? Occhio ai punti però!


Ve lo dice anche la donna-orsacchiotto!

martedì 10 settembre 2013

Lo Spettatore Occasionale si è beccato... Devil's Pass

Lo Spettatore Occasionale si è beccato per voi: Devil’s Pass o The Dyatlov Pass Incident (2013).


Che meraviglia.

Ci sono film che procedono per sottrazione e film che procedono per addizione. Che ne so, Una storia vera di Lynch procede per sottrazione, Le Verità Nascoste per addizione. Il primo è un bel film, il secondo è un ottimo regalo per un amico affetto da coprofilia.
Cos’è la coprofilia?
Accidenti a voi.

Renny Harlin aveva a cuore questa faccenda: nove esperti escursionisti persero la vita la notte del 2 febbraio 1959 a causa di un evento sconosciuto. I corpi furono trovati nel giro di tre mesi: sembrava fossero usciti dalle tende in piena notte, mezzi nudi, uno di questi era privo di lingua, quell’altro aveva tracce di radiazioni, due presentavano fratture del cranio, insomma, una storia misteriosa di mistero, basata su un evento tragico realmente avvenuto. Le teorie sulla faccenda si sprecano: si passa da una valanga, all'attacco di una tribù di indigeni, a yeti, UFO, zombie, Giovanardi, insomma, un mucchio di spiegazioni ai confini della realtà. Ancora oggi non si sa esattamente che cosa causò la morte degli scalatori. Se vi interessa approfondire la conoscenza di questo fatto oscuro, beccatevi ‘sto link.

Link da beccarsi

Harlin, l’uomo che ha causato il fallimento di Carolco (ok, magari non proprio solo lui, ma ci ha messo del suo con Cutthoat Island: costato 98 mln ne incassò 10 circa…) ma anche lo stesso che ci ha regalato Die Hard 2, si mette dietro la macchina da presa con la lucida determinazione di chi ha un obiettivo: affrontare la storia di cui sopra, renderla di dominio pubblico, azzardare una spiegazione. Qualcosa del genere.


Salve, sono Ridge di Beautiful.

Per portare a termine questo compito fa due scelte: immagina che un gruppo di giovani esploratori torni sul luogo della tragedia ai giorni nostri, per indagare su cosa sia accaduto alla spedizione storica, e sceglie di girare un found footage. Io non ero d’accordo, ma le mie rimostranze non sono state sufficienti a fargli cambiare idea.
Devil’s Pass o The Dyatlov Pass Incident (2013) non procede per sottrazione, e già il fatto che abbia due titoli la dice lunga in proposito.
La pellicola ha una regia (?) che, per la natura restrittiva del formato scelto, è minimale; forse addirittura meno shaky di quanto uno si aspetterebbe da un FF. C’è sempre un tizio che riprende gli altri tizi in mezzo alla neve, sul treno, in un bar e tutti chiacchierano e bla bla bla bla. Found Footage.
Primo limite del film: se mi giri una pellicola nella quale devo stare a sentire ragazzini che parlano tra loro in mezzo al nulla, scegli dei ragazzini che sappiano recitare. Grazie, Renny. Postilla: magari scegli anche uno sceneggiatore capace di rendere i dialoghi interessanti (Diablo Cody, pussa via!).
Secondo limite del film: mi trovo in difficoltà ad affrontare il passaggio che segue. Per poter andare a fondo della questione, dovrei spoilerare a manetta. Considerato il fatto che Devil’s Pass non è ancora uscito in Italia, ho delle remore a farlo. Intanto metto uno SPOILER ALERT, poi si vedrà.

Se leggete oltre, lo fate a vostro rischio e pericolo. Primo limite del film, ragazzini che non sanno recitare. Secondo limite del film: tralasciando questioni tecniche, concentriamoci sulla componente narrativa. I giovani raggiungono gli Urali e si apprestano a partire per la loro scampagnata, partono, si accampano, ripartono, si riaccampano, succede un casino. Il film a questo punto si spacca a metà. Prima c’è un crescendo di tensione: all’inizio sappiamo dai titoli di un TG russo che della spedizione si sono perse le tracce, poi la storia riparte da capo con la trovata del filmato recuperato da una delle videocamere del gruppo.
MA IN SOSTANZA NON SUCCEDE NIENTE PER QUARANTA MINUTI. Ma proprio niente. Zero. Però un minimo di tensione c’è, oh, lo giuro. Perché ti aspetti che stia per succedere qualcosa. Cioè, la bussola va a banane mentre scalano il monte diretti al passo dove gli alpinisti morirono negli anni cinquanta. I cellulari non prendono. I capelli diventano crespi. Però non è che ci sono mostri. Niente di niente. Poi… Poi iniziano i problemi. Nell’ordine: c’è una slavina. Una tizia muore. Un tizio è ferito. Arrivano dal nulla in cima alla montagna due uomini, dicono di essere soccorritori, il tizio ferito dice che non è possibile siano già lì, quelli non feriti corrono via, i tizi sparano, i fuggiaschi raggiungono una porta nella montagna (true story), la aprono, si infilano dentro, se la chiudono alle spalle.


Magia, mistero. Parola di Quelo.

Cos’è, Lost?
Magari.

Ci sono tunnel scavati nelle montagne. Si addentrano in questi tunnel e… Secondo me, a questo punto, la produzione ha mandato un impiegato a chiedere e Renny se aveva intenzione di mettere qualcosa nel suo film, che ne so, un mostro, UFO, morti ammazzati, sangue, mistero.
Renny sbrocca e dice: Sai che faccio? Io ci metto TUTTO.
E lo fa. Ci mette veramente tutto.
Nel bunker troviamo: laboratori, stanze delle torture, dossier militari che parlano di esperimenti segreti, lo stato di servizio di centomila soldati russi uccisi in azione, l’esperimento di Philadelphia, il teletrasporto, mostri ridicoli che stanno sul soffitto e poi cadono e poi si magnano uno, un altro stanzino, un passaggio nelle caverne tipo Stargate, con tanto di pittogrammi dei nativi di mille anni prima… Tutto in un quarto d’ora. Tralascio il twist finale. Perché c’è, un twist finale. L’ho già detto che il film procede per addizione?

Insomma, Devil’s Pass o The Dyatlov Pass Incident (2013) avrebbe potuto essere un film interessante, se prima di girarlo avessero deciso cosa metterci dentro e cosa escludere. Girato così, non so… è come se voi decideste di organizzare una cena. Invitate dieci amici. Decidete di fare due antipasti, un primo, un secondo e un dolce. Dieci minuti prima che arrivino gli ospiti, dovete ancora iniziare a cucinare. Tirate fuori tutti gli ingredienti e… Boh, per fare prima li mescolate tutti in un secchio, gli ingredienti del primo, del dolce, dell'antipasto, tutto insieme. Sulla carta il menu era invitante, ma mescolato tutto così, quel pastone molliccio e ributtante cos’è?


Che cuoco sopraffino!
Appunto.

Il giudizio dunque è: Meglio avere un secchio (Monty Python©)


Il Cittadino Occasionale meets Mr. Uveite

Mr Uveite, uomo animato da un gran appetito di vita e di –OMISSIS-, non se la passa benissimo.

 
Cazzo guardi?
Qualcuno obietterà che passarsela come se la passa lui non è esattamente non passarsela bene, tuttavia concorderete con me che essere a un passo dalla decadenza non è cosa che faccia piacere.
Decadrà? Non decadrà? Decadranno prima gli altri? Decadremo prima noi?
Mi sento di poter rispondere con franchezza a questa domanda, nella maniera che segue:

Occorre davvero una sentenza passata in giudicato (quindi, sulla carta, inappellabile) per far sì che Mr Uveite getti la spugna e se ne torni sotto la pietra dalla quale è uscito anni fa?

No, perché se serve una sentenza, stiamo freschi.
È dal 1979 che quell’ometto buffo si destreggia tra perquisizioni, domande senza risposta, leggi ad personam, inculate mondiali, figure barbine, mignotte di ogni età, estrazione sociale e coppa di reggiseno. Serve sul serio una sentenza di frode fiscale per capire che non è l’uomo giusto al posto giusto?

 
Foto di gruppo con minchione
In tutti questi anni di Silvianesimo, non è che l’Italia sia andata incontro a un boom economico. Un boom c’è stato, sì, ma contro un muro.
Perché siamo finiti contro un muro? Ma perché aveva l’uveite, ovvio! Come si può vedere bene se si ha l’uveite? Lo sanno anche i bambini.
Quindi, in buona sostanza, scomparirà dal nostro quotidiano questo rancoroso nanerottolo dalla lingua veloce e la morale di un boa che non si nutre da settimane? Certo che no. Mr Uveite è un sintomo, non una malattia. È il grado zero dell’essere Italiano Medio, qualcosa a cui tutti aspiriamo, senza aver il coraggio (o la debolezza) d’essere. Siamo noi a dover cambiare, non lui. Faccia quel che vuole, lui. Rimanga, scompaia, finisca ai domiciliari, chissene. Il giorno in cui nessuno sentirà il bisogno di parlarne, di quell’insidioso Pan dei giorni nostri, sarà un giorno meraviglioso e nuovo.

Che sia già domani?

giovedì 5 settembre 2013

Lo Spettatore Occasionale presenta: Oldboy, Oldboy 2.0, la Tragedia Greca, Spike e l'arte di remakare


Oggi lo Spettatore Occasionale inforca occhialini tondi da intellettuale e si accinge a parlarvi di Oldboy.
Prima di iniziare vi fornisce un’immagine degli occhialini.

Un must per chi ci capisce.


E una locandina di Oldboy.



Brividi.


E una locandina del remake di Oldboy firmato Spike Lee, in uscita a fine anno.

Ma che davero davero?


Una locandina della mia faccia quando ho scoperto che Spike Lee avrebbe realizzato un remake di Oldboy.

Orco boia!


Esaurita la premessa in quattro immagini (con didascalie), passiamo al piatto forte della nostra cena: Oldboy.
Un po’ di storia.
Tra il 1996 e il 1998, sul settimanale giapponese Weekly Manga Action, viene pubblicata una serie dal titolo Oldboy, scritta da Garon Tsuchiya e disegnata da Nobuaki Minegishi. Questo manga ha un discreto successo. Ci interessa? Direi di no.
Park Chan-wook, regista sudcoreano, si interessa al concept di questo manga e ne sviluppa una versione alternativa (un po’ perché tradurre un’opera da un linguaggio a un altro è necessariamente un tradimento, un po’ perché il finale del manga non aveva il crescendo che Park Chan-wook desiderava la sua opera avesse).
Il progetto del film Oldboy si inserisce in un percorso di ricerca sul tema della vendetta (Chan-wook aveva girato in precedenza Simpathy per Mr. Vengeance e girerà successivamente Simpathy per Lady Vengeance).
Il film vince il Grand Prix al festival di Cannes nel 2004 (presidente della giuria un certo Quentin Tarantino).
La parte didattica finisce qua, ora si passa ad alcune considerazioni sul film (SPOILER ALERT), seguite da alcune considerazioni sul concetto di remake, inframmezzate da alcune considerazioni sulla Tragedia Greca e il rapporto della stessa con il cinema.

Trama (desunta da Wikipedia):


The film follows the story of one Oh Dae-su, who is locked in a hotel room for 15 years without knowing his captor's motives. When he is finally released, Dae-su finds himself still trapped in a web of conspiracy and violence. His own quest for vengeance becomes tied in with romance when he falls for an attractive sushi chef. 



Oldboy, per evitare che si generi confusione nel lettore lo scrivo subito, è un capolavoro.
Non quasi un capolavoro o un capolavoro mancato, è un CAZZO di CAPOLAVORO, seguito da un PUNTO.
CAPOLAVORO.
Un’affermazione del genere necessita di sostegni concettuali e articolate spiegazioni. Vi accontento.
Partiamo da un’analisi tecnica. Chan-wook è un regista con i controzebedei. Ha padronanza assoluta del mezzo, riesce a costruire un tempo per il suo film che non perde un colpo, esibisce un’architettura narrativa impeccabile e conduce per mano lo spettatore fino sull’orlo di un abisso, costringendolo a guardare di sotto e a guardarsi dentro.

Tanto per non incorrere nelle ire del lettore occasionale, mettiamo un bell'avviso di SPOILER. SPOILER IN ARRIVO. SPOILER GIGANTI. SPOILER TOTALI.

BEST SPOILER ALERT EVAH, BRO'

La fotografia del film non è patinata come quella che sembra aver scelto Spike Lee: è densa, ma non satura. È virata su toni cupi, scuri, su neri (il nero dei capelli, il nero della notte, il nero del vestito di Dae-su, il nero di diversi occhiali da sole) contrapposti, durante la parte finale della pellicola, a un bianco che toglie il respiro a trasmette un senso di vertigine. La vicenda del protagonista inizia con il nero di una notte piovosa e trova compimento (non soluzione) in un paesaggio innevato, ovattato a abbacinante. Il bianco non è colore che indichi purezza o celestiale ricompensa: è negazione di ogni colore. Mentre il nero è assenza di colore, questo bianco è negazione di ogni colore; è lo stesso colore di Moby Dick, il colore del destino, della Nemesi, del nulla, di quell'ultima prova che l’Eroe non può superare. Un colore che è al di là del bene e del male, che precipita l’osservatore (insieme ai personaggi) in un inferno di congetture.
La macchina da presa non è mai frenetica; è disciplinata, ordinata, spietata. Chan-wook muove lo sguardo con stile chirurgico. Il caos non è dato dal movimento, ma dal contenuto delle inquadrature. 
E la composizione di ogni singola inquadratura è Arte.

Game, Set, Match.

Quando Dae-su scompare, a inizio pellicola, le rivelazione è data da un inquadratura del regalo che aveva fatto alla figlia di quattro anni, ali d’angelo da indossare con legacci bianchi, abbandonato in mezzo a una strada. È notte, la città è sferzata da un violento acquazzone, la macchina da presa si solleva allargando l’inquadratura. Si parte dalle ali e si passa alle ali in mezzo al’asfalto: il bianco, il nero, la pioggia. In quel lento salire c’è disperazione per qualcosa che sta per accadere e un senso di perdita irreversibile.
Le transizioni e le scene di raccordo non sono mai scontate, ma in linea con l’estetica del film anche quando sono volutamente sopra le righe (pur non raggiungendo gli estremi del successivo Simpathy for Lady Vengeance). La colonna sonora è adeguata, e funziona sempre come un reagente chimico che, in simbiosi con gli altri elementi, induce lo spettatore a restare, a osservare, a scavare, a partecipare. Tutto in Oldboy ha un preciso scopo, un preciso posto e una rigorosa adesione al canone estetico imposto dal regista. I campi e controcampi della parte finale, con Lee Woo-jiin in ascensore che, portata a termine la propria vendetta, indugia nel ricordo della morte della sorella amante, è un poetico e disturbante ritratto di amore incestuoso incesellato nel continuo gioco di tempi (ripresa di Lee Soo-ah sospesa nel vuoto, controcampo su Lee Woo-jiin giovane, Lee Soo-ah sospesa nel vuoto, controcampo Lee Woo-Jiin ORA, nel preciso momento narrativo del film, un ricordo di carne e ossa).
La terribile parte finale di Oldboy (terribile nel senso di crudele, non di malfatta) (crudele nel senso di Artaud, il Teatro della Crudeltà e via discorrendo) (minchia, ho messo due... tre parentesi una in fila all'altra! TRIS!) sembra uscita da una Tragedia Greca.

INTERLUDIO SULLA TRAGEDIA GRECA: Michael Bay è uno stronzo.
In Armageddon mette in bocca a Steve Buscemi questa frase (grossomodo): “Qui è peggio di una tragedia greca”. Non voglio dire che è causa di Bay se la gente considera come bibbia l’equazione TRAGEDIA GRECA=TAGLIARSI LE PALLE, però in un certo qual modo si fa veicolo del concetto stesso. L’equivoco di fondo, secondo me, è questo: l’interesse degli autori tragici non era sommare un certo numero di sfighe per distruggere i protagonisti facendoli soffrire abbestia, quanto piuttosto indagare la dimensione umana di chi viene sfidato dal Fato ad affrontare prove titaniche. L’interesse per il dolore è proprio del patetico, non del tragico. Al patetico interessa il tizio morente che biascica in un letto d’ospedale (il protagonista è il dolore, non l’uomo). Al tragico interessa l’uomo di fronte al Destino. Non è nemmeno lo stesso fottuto campionato, per intenderci.
FINE DELL’INTERLUDIO SULLA TRAGEDIA GRECA.

State bene? Tutto a posto? Vi posso offrire un cordiale?

Ho sempre desiderato di offrirne uno.
 Molto bene, riprendiamo.

I temi della Tragedia Greca sono universali ed eterni. La ricerca di affermazione, l’aderenza alle norme sociali, il desiderio di sfida proprio degli uomini, la dignità, la perdita di sé data dalla scoperta di verità difficili da gestire.
Al termine di Oldboy emergono due verità: che il responsabile della prigionia di Dae-su amava la propria sorella, e che Dae-su ha giaciuto con la propria figlia. Ci sono due incesti che si incrociano.
La sorella di Lee Woo-jiin si suicida, timorosa delle conseguenze sociali che avrebbe la rivelazione del suo amore per il fratello (Dae-su li ha visti nell’atto di consumare il loro amore durante un ozioso pomeriggio di tanti anni prima); alla morte della sorella, Lee Woo-jiin orchestra un piano per vendicarla e per vendicarsi di chi ritiene responsabile di quanto successo, ovvero Dae-su. Ci sono due incesti e due vendette. L’incesto di Dae-su è la vendetta di Lee Woo-jiin. La vendetta che Dae-su cerca pervicacemente per tutta la pellicola, una spiegazione per la sua incarcerazione e per i 15 anni vissuti in una cella / camera d’albergo, non può essere consumata, e la libertà al quale viene restituito è una prigione eterna.
Dae-su viene indotto da Lee Woo-jiin ad amare la propria figlia, e viceversa, attraverso un condizionamento mentale supportato dall’azione di una ipnoterapeuta; nessuno dei due sa chi sia l'altro. Dae-su, quando si trova di fronte a Lee Woo-jiin e ancora non è stato investito dalla portata della rivelazione (e ignora i motivi che hanno spinto la propria Nemesi a confinarlo in una cella per anni), è pronto a battersi e a estorcere con la forza una risposta; Park.Chan-wook restituisce a tutta questa parte una dimensione tragica assoluta. Movimenti di macchina fluidi e minimali, inquadrature fisse, finestre e tendine ad accompagnare la confessione di Lee.
Un continuo gioco di rimandi, di riferimenti, di vicoli ciechi e ribaltamenti di prospettiva si dipana lungo una via che conduce al finale, aperto alle interpretazioni (se qualcuno è interessato, se ne può discutere nei commenti!).

La Tragedia Greca non era fondata sul colpo di scena, ed era legata a eventi del patrimonio culturale ellenico, i Miti. Se un giorno, durante i periodi di feste che davano spazio alle rappresentazioni teatrali, aveste deciso di andare a vedere la nuova opera di Stokazzicos, noto drammaturgo Ateniese, la trama in sé non vi sarebbe interessata molto, perché il plot già lo conoscevate. La Tragedia era una sorta di festival del remake su larga scala; la differenza tra questo tipo di spettacolo e il remake cinematografico è però abissale.
Esistono due tipi di remake al cinema: un primo tipo di carattere temporale e uno di carattere geografico. Il primo prende un’opera datata e la ripropone aggiornandola al periodo in cui viene girata, il secondo prende un’opera straniera e la ripropone adattandola al proprio pubblico e alla propria idea di cinema.
Gli americani sono campioni di remake, proprio primi in classifica con un distacco sul secondo posto notevole. Tutti girano remake o “adattamenti”, Russi, Cinesi, Indiani, Turchi… ma come lo fanno gli americani non c’è nessuno. Americans do it better?
Anche no.
Esempio: spariamo alto, anzi altissimo. Qualcuno di voi avrà sentito parlare di un vecchio film intitolato “Psycho”.

Piacere, sono un Capolavoro.


Psycho (1960) è un caposaldo della cinematografia di genere, e non solo. È una pellicola moderna, ardita e disturbante, specialmente a una seconda visione. Van Sant decide nel 1998 di realizzarne un remake; il prodotto è una pedissequa riproposizione dell’opera ispiratrice, e quando dico “pedissequa” intendo tipo quando da piccoli, per copiare un disegno, lo mettevamo sotto un foglio trasparente per tracciarne i bordi. È un’operazione inutile, sterile e risibile nel risultato. 

L'unica cosa che cambia, ragazzi miei, è la locandina.


Perché? Perché, come diceva quel coglione di Aristotele, “Il tutto è maggiore della somma delle sue parti”. Se alteri tutti gli elementi del film (regista, cast, location, mezzi tecnici, periodo storico di realizzazione) senza metterci un tuo punto di vista o una tua personale visione del narrato, il risultato è inevitabilmente una cagatella.
Capito Gus? Senza offesa.
Altri esempi, più brevi: The Day the Earth stood still (tradotto dai nostri impavidi titolisti Ultimatum alla terra). 

Piacere, sono un altro Capolavoro. Ok, la locandina è così così... Però fidatevi.


L’originale del 1951 è un’opera semplice, suggestiva e resa potente da un messaggio pacifista che, contestualizzato e messo in relazione al momento storico in cui è stato concepito e realizzato, è la vera forza, la vera chiave di volta del film. The Day si inserisce in un filone che portava avanti un discorso diverso (la Guerra Fredda incombeva, la minaccia esterna agli USA era rappresentata nei film di SF classici da potenze aliene ostili che incarnavano i timori dei Rossi alle porte) e si staglia ancora oggi come coraggioso tentativo di fornire una prospettiva diversa e un diverso esito a ciò che il cinema allora rappresentava e comunicava.
Nel 2008 Scott Derrickson decide che ora di rovinare quel film vecchio e brutto. 

No, no, no, no, NO E NO.


Il nostro gira una prima parte (fino a quando Keanu Reeves apre gli occhi) più che decorosa, poi la famiglia Smith e uno sceneggiatore fatto di crack mandano tutto in vacca, si arriva al catastrofico baraccone finale, un putrido esempio di cerchiobottismo che manda a fare in culo il messaggio pacifista virando su un edulcorato discorso ecologista fuori posto e infantile. 

Piacere, mi chiamo Keanu e ho la faccia di legno.


Ci sarebbero mille altri esempi, ma questi due film mi fanno sbroccare e non voglio andare oltre. Che poi non è che tutti i remake siano letame, intendiamoci. Ce ne sono anche di decorosi. Ciò che fa funzionare un remake, a mio avviso, è la scelta di un materiale d’origine meritevole e aperto a diverse interpretazioni, l’occhio di un regista con personalità e competenza e uno script che sappia sviluppare i temi aderenti al nucleo narrativo dell’opera ispiratrice in una chiave nuova e insolita.
Ci sono però film che non hanno bisogno di remake, perché sono recenti, o perché sono potenti, perché sono universali, perché funzionano nel loro insieme a meraviglia ovunque li esporti.
Che ne so, nessuno si sognerebbe di fare un remake di 2001: Odissea nello spazio, o di Citizen Kane. Non ce n’è bisogno, sarebbe un atto oltraggioso e un suicidio artistico per chi avesse la hybris di provarci.
I Greci avevano un limitato bacino di soggetti (limitato per modo di dire): i principali Miti ruotano attorno a famiglie di rango e a eventi fondanti il mondo come i Greci lo conoscevano. Un buon autore prendeva un soggetto (mettiamo Antigone), si atteneva al plot prestabilito (con eventuali minime variazioni dovute alla rielaborazione del mito secondo tradizioni, città di provenienza, influenze di altri miti) e forniva il proprio personale sguardo su quel mito. In un certo senso il soggetto diventava anche contenitore di altro. E più un autore era capace, più riusciva nell’impresa di impreziosire la propria opera con riferimenti e riflessioni che erano vicine al mito ma personali, che da esso dipartivano per tracciare panorami nuovi, analisi profonde, stimoli intellettuali diversi per gli spettatori.
Veniamo a Spike Lee.
Spike Lee non mi sta sul cazzo, non scherziamo. Gli perdono anche tutto il pistolotto su Django, roba insensata che puzzava di trovata pubblicitaria a ottomila chilometri di distanza. La 25° ora è un lavoro magistrale, toccante, una regia compatta, una storia di abbandono e di salvezza, un ritratto nostalgico e problematico sulla New York ferita dall’11 settembre. Inside man un giocattolone trascinante, sorretto da un Denzel Washington superlativo e un doloroso e geniale Clive Owen. Andando ancora più indietro ne ha fatte di cose belle, il ragazzo.
Ora però mi permetto una domanda:
Spike, amico mio, ragazzaccio con l’animo di un poeta e la tasca del multimilionario… perché? Perché Oldboy? Che bisogno c’era?
Innanzitutto, come si configurerà tutta la vicenda dell’incesto doppio nella tua visione americana del Mito? Come uscirà dalla tua macchina da presa un prodotto che deve gran parte del suo successo al meccanismo narrativo che deflagra, inatteso, nel finale?
Sarebbe un po’ come rifare I soliti sospetti e mettere sulla locandina,  davanti al cinema, la scritta: “Occhio allo zoppo!”. Immagino che qualcosina del film andrebbe perduto. Tipo la riuscita. 

Fornire una personale visione di Oldboy ci sta. Prendi il fumetto, ignori il film di Park Chan-wook e vai per la tua strada, raccontando il tuo Josh Brolin intrappolato, il tuo Samuel L. Jackson viscido e così via. Però, se già mi metti nel trailer il baule e Brolin che esce da lì, cazzo, già mi fai l’occhiolino, mi dai di gomito, ammicchi, mi vuoi far capire che ti è piaciuto quel film, che lo stai omaggiando...
Ci metterai anche il piano sequenza del martello?
Dimmi di no. Dimmi che mi sbaglio, che non stai facendo una fotocopia sbiadita della Gioconda per poi tentare di convincermi che sei un ottimo pittore… No, Spike.
Spero di uscire dalla sala stupito. Di uscire e dire a me stesso: Sei il solito pessimista, alla fine non era così male.
Spero di uscire dalla sala, correre a casa e scrivere un post dal titolo: Lo Spettatore Occasionale è un coglione patentato.
Qualcosa mi dice che forse non sarà così. Ma alla fine voglio darti un po’ di fiducia, un trenta per cento di fiducia, dai.
Restituiscimi la vertigine tragica di Park Chan-wook, quello sguardo finale nell’abisso, quel bianco assoluto e annichilente, fammi provare metà delle sensazioni che il coreano mi ha trasmesso e torneremo amici.
Se però fallisci e mandi tutto in vacca, chiamo Quentin e veniamo lì da te a farti i dispetti.
Samuel ha detto che ci sta.

Cioè, fammi capire. Giro un film contro la schiavitù, un film che ridicolizza l'America delle violenze razziali, dipinge come mostri gli schiavisti e, metaforicamente, vendica gli schiavi tramutandoli in Eroi... E tu mi dici che sono razzista?


Occhio, quindi. Sono uno spettatore esigente. Spero tu sia un REMAKER in grado di sbalordirmi.