venerdì 29 novembre 2013

Lo Spettatore Occasionale vuoi dire fiducia: SPOILER su John il Rosso in arrivo!

Come molti di voi certamente ben sapranno, quest'anno ci sono stati una grande moria delle vacche (pausa) e, pochi giorni fa, l'episodio numero otto della sesta stagione del serial TV intitolato The Mentalist

Ehi, dove diavolo è il mio [OMISSIS]? Senza il mio [OMISSIS] non posso sconfiggere Red John!


Siffatto episodio aveva l'ingrato compito di mettere la parola fine alla lunghissima saga di John il Rosso, nemesi di Patrick Jane e Villain carismatico della serie.
Dopo sei anni di peripezie, approfondimento dei personaggi, episodi mediocri, episodi affascinanti ed episodi così così, si è giunti a conoscere la verità sul cattivone. Giova ricordare che codesto losco individuo nel corso della serie è riuscito a mettere in piedi una rete criminale mica da ridere, con infiltrati nelle forze dell'ordine, in politica, nei servizi segreti, ovunque. Ha manipolato le persone a proprio piacimento, per giocare con Jane un'estenuante partita a scacchi durante la quale sono state sacrificate pedine importanti per il nostro amato mentalista biondiccio. Un novello Moriarty, sempre un passo avanti rispetto a tutti quanti, sveglio, astuto, pericoloso, contrapposto all'adattamento moderno di Sherlock Holmes incarnato da Patrick. Un genio, in poche parole, a criminal mastermind.
È riuscito Bruno Heller, autore di The Mentalist, a concludere degnamente la faccenda, confezionando un ultimo atto intrigante e adrenalinico, restituendo a Red John la dimensione epico-tragica che dovrebbe appartenergli?

SPOILER

Vaffanculo, Bruno Heller.

SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER
Se volete gustarvi la sorpresa, smettete di leggere. Inviate una raccomandata al vostro provider Internet per disdire l'abbonamento, sotterrate lo smartphone, andate a vivere in un capanno in alta montagna e cessate di comunicare con chiunque. Poche ore dopo la messa in onda negli USA dell'episodio, la rete era già piena di informazioni sull'identità dell'uomo di malaffare che a suo tempo aveva ucciso moglie e figlia di Jane; sappiate che lì fuori ci sono mille sirene pronte a tentarvi.
Ritenetevi avvisati.
Ora procedo.
John il Rosso è...

SPOILER
Lo sceriffo McAllister.

Giustamente mi farete osservare che era (apparentemente) morto al termine della puntata numero sei, al che io vi risponderò Agatha Christie e la chiudiamo lì.
Altri mi sottoporranno il quesito: Chi straminchia è lo sceriffo McAllister
È un tizio che compare in alcuni episodi, sin dalla prima stagione. Fa lo sceriffo ed è abbastanza anonimo.
Passiamo sopra alla mera questione identitaria della nemesi di Jane e domandiamoci se vi sia epicità nella rivelazione, nell'incontro, nello scontro e nella soluzione.
La risposta è:

L'arma con la quale l'Eroe sconfigge il Cattivo: il temibile Piccione.


SPOILER
Vaffanculo, Bruno Heller.
No. Epicità non pervenuta.

Dopo sei anni (72 mesi, 312 settimane, 2.190 giorni ) io mi aspetterei un minimo di calma nel pianificare un finale decoroso; non ho fretta, Bruno, vai tranqui, pigliati il tempo che ti serve. Fai succedere le cose con logica e con partecipazione. Non con gente che si rincorre per quaranta minuti, perché in quel caso non è la fine di Mentalist, ma di Wile Coyote
Capito, Beep Beep Heller?
Il problema sostanziale sta nel fatto che The Mentalist, serie tutto sommato mediocre, poteva osare una soluzione ricercata, e regalare (che ne so) un trittico di puntate finali correlate, capaci di offrire al pubblico qualcosa da ricordare... e invece. 
In sostanza accade quanto segue: dopo anni e anni e anni (e anni) di indagini, Patrick restringe la lista dei sospetti che potrebbero essere John il Rosso a sette nomi. Tutti e sette sono un po' loschi e misteriosi, e ciascuno di loro ha una fobia particolare: c'è quello che soffre di vertigini, quello che ha paura dei ragni, quello che teme gli uccelli (ah ah ah ah ah). Nel corso della puntata precedente, uno dei sospetti,  Bertram, mentre si trova in fuga dà appuntamento a Jane per chiarimenti finali. Jane parte per raggiungere il luogo d'incontro, incidente, FBI che blocca tutto. Jane riesce a fuggire grazie ai colleghi del CBI. Altro giro, altra corsa. Appuntamento. Bertram non è John il Rosso. Schiatta. Entra McAllister (quello che aveva paura degli uccelli) (ah ah ah ah ah ah). È LUI John il Rosso. Minaccia Jane con una pistola, ma (udite udite) LO LASCIA PARLARE COME UN PIRLA PER UN PO'. Perché se sei un Villain che si rispetti, in condizione di manifesta superiorità sul tuo nemico, allora devi essere un po' minchione e consentire che quell'altro ti metta con le spalle al muro. Devi proprio, è nel contratto di ogni Villain Minchione che si rispetti.
Jane ribalta la situazione mettendo in mano a John mollica di pane e tirandogli addosso un piccione, che aveva sotto la giacca. Da quando era sotto la giacca? Dove l'ha preso? Quindi sapeva già tutto? Quando ha capito che Red John era McAllister?  
Lo sceneggiatore da Lei cercato non è al momento raggiungibile, la invitiamo a riprovare più tardi.
Jane prende una pistola nascosta in loco (vedi sopra per le domande da porsi) e spara a McAllister-John il Rosso. John, ferito, fugge grazie all'intervento di una complice. Patrick e Minchione si rincorrono per un po'. Raggiungono le tombe di moglie e figlia di Jane. John ammette di sentirsi in colpa per quel che ha fatto e di aver paura. Jane lo strangola, poi se ne va. 
Fine.
Partecipazione zero.

Non c'è un crescendo di tensione, non c'è un personaggio oscuro con cui confrontarsi, ci sono tizi che si rincorrono e morta lì.
Le due figure (nel narrato di The Mentalist) sono profondamente collegate, sono l'una il rovescio della medaglia dell'altra. Nel momento in cui si confrontano, ci si attende che non sia soltanto una sparatoria a costituire la dialettica tra di loro, ma un vedere riflessi l'uno nell'altro aspetti di sé. Jane è un po' John il Rosso, e John il Rosso è un po' Jane; tale mescolanza di carattere non ha spazio nell'episodio, e Heller preferisce un canonico bianco e nero a scale di grigi più problematiche. Alla fine a me non me ne fregava una ceppa di nessuno; né del deludente John, né della scelta di Jane di agire da solo per la propria vendetta, né di tutti quegli altri comprimari, privi di lavoro per la chiusura del CBI e chirurgicamente rimossi dalla sceneggiatura. 
Una grande tristezza. 
Immediato viene da fare il confronto con la serie BBC Sherlock, reinterpretazione in chiave moderna delle avventure di Holmes e Watson. Il finale della stagione due, con il duello tra Sherlock e Moriarty, è roba da cardiopalma e lacrime. Non si tratta soltanto di struttura narrativa, ma di sceneggiatura, costruzione delle scene, montaggio, colonna sonora, interpretazione degli attori... Quella è partecipazione, quella è tensione, quello è un finale.
Io capisco la necessità produttiva del Cut to the chase, ma nel lavoro di Bruno ci sono troppi chase e troppo poco altro da tagliare. 
E poi, lasciatemi dire che 'sto tizio che dovrebbe essere John il Rosso è uno sfigato. Criminal Mastermind 'sto qua?

John il Rosso, prima di essere colpito da un piccione.


SPOILER
Vaffanculo, Bruno Heller. 

Non so come e quando The Mentalist finirà (perché la serie prevede ancora alcune puntate), ma me ne fotto. Quel che mi turba è che intendono affidare a Bruno una serie intitolata Gotham, ambientata nell'universo DC e incentrata sulle vicissitudini di un giovane Jim Gordon e la pletora di cattivi che diverranno avversari dell'Uomo Ratto Volante
Una roba da far tremare i polsi. 

Riuscirà Heller a riprendersi dopo 'sta delusione mostruosa di John il Rosso? Stay tuned per saperne di più!

giovedì 28 novembre 2013

La decadenza non è una danza, ma amara sostanza per un uomo de panza. Firmato: Il Cittadino Occasionale

Mentre tutto quanto il circo al quale la politica nostrana ci ha abituati, giungendo infine a narcotizzarci, fa bella mostra della propria mostruosità, sento il grande vuoto lasciato dalla domanda chiave, che mi sembra nessuno abbia l'ardire di fare.
Poniamo che, in un qualunque altro paese al mondo, un uomo politico importante sia condannato per un reato ai danni della comunità (perché Frode Fiscale quello significa); poniamo che tutti attendano il pronunciamento dell’ennesima assemblea di rappresentanti della nazione per sapere se questo politico si leverà dai marroni oppure no; poniamo che si viva un quotidiano stillicidio di dichiarazioni, prevaricazioni, anatemi, piagnistei, filippiche e orazioni; secondo voi, considerate le premesse di cui sopra, è possibile che nessuno si ponga la domanda delle domande?
La domanda delle domande è: (mettetevi seduti, prendete fiato, fatevi coraggio)
 

PERCHÉ NON SI È DIMESSO SPONTANEAMENTE?

Non dopo l’ultimo grado di giudizio, ma prima. Prima del primo, magari. Per decoro. Rispetto del proprio paese, dei propri concittadini, della propria dignità.
Esiste la dignità in Berlusconi? La risposta è:
AH HA AH AH AH AH AH AH HA AH AH AH AH AH.


Che meraviglia, che classe, che stile inconfondibile.
Beh, no. Non esiste. 
Zero. 
Nessuna traccia.

Mentre si parla di fine di un’epoca, di caduta di un gigante, di gigantesco crollo di una figura ingombrante, di ingombrante e gigantesca caduta di palle di fronte a un nano dall’ombra chilometrica, il mondo seguita a roteare su se stesso, gli altri paesi vivono vite in cerca di una parvenza di normalità e noi restiamo ipnotizzati a osservarci l’ombelico.
Come ho già avuto modo di osservare in precedenza, il Silvianesimo continua a dar prova di grande radicamento, di estrema forza. Valletti, paggi e donne di piacere starnazzano intorno al loro Leader (vecchio e consumato), parlandosi addosso e dipingendo un quadro silviocentrico all’interno del quale la sola effigie del Re è chiara, mentre tutto il resto è uno sfocato insieme di colori.
La Biancofiore (alla quale auguro un momento di lucidità, uno solo, in cui la drammatica presa di coscienza di ciò che è e di ciò che rappresenta la spinga a tacere per sempre) dichiara: "Quando le donne vedono un uomo ricco, ci si buttano a pesce".
Michaela. Michaela (con l’acca) cara.
Michaela mia, io temo che UNA donna nello specifico si sia buttata sul PESCE di un uomo ricco, e se ti fischiano le orecchie, forse è perché ne sai qualcosa.



Brunetta dice robe turpi di chiunque, gioca con le parole ("grandi intese, piccole intese, governo di sinistra"). Bondi (dal fisico falliforme, con una testa a cappella che induce a pensare che sia una grandissima, viscida testa di QUARZO) graffia Formigoni, Formigoni, altro uomo priva di alcuna dignità, continua a sedere e battibeccare con quegli altri, Cuperlo e Renzi si prendono a parole e si rendono ridicoli con battute da quinta elementare, Vendola inciampa in un’intercettazione da brividi, Grillo continua a chiedere la testa di Napolitano, e al contempo insiste nel volersi appropriare dei meriti (?) della caduta del decaduto.
La politica italiana è Berlusconi. Si articola in maniera antitetica intorno a lui. Ci sono quelli a favore e quelli contro, due macrocategorie; scendi di livello, trovi ulteriori divisioni. Tali divisioni sono ulteriormente disposte lungo una scala, secondo le attitudini di chi le popola. Ci sono quelli più volenti (nel difendere o nell’attaccare), i moderati, i border line, e poi Casini, che fa categoria a sé, uno che pur di tenere le natiche sulla poltrona arriverebbe a dire qualsiasi cosa.
C'è anche di peggio, eh. Tipo Capezzone.
Dichiarazione di Capezzone:
"Berlusconi si paragona a Napoleone e Churchill. Mi ricorda la barzelletta dei due matti: uno dice "Io sono Mosè e Iddio mi ha dato le tavole della legge" e l’ altro, offeso "Ma guarda che io non ti ho dato niente!". Ecco, lui potrebbe essere il secondo matto, mentre per il novello Mosè bisogna scegliere tra Bondi e Fede" (Corriere della Sera, 2006).


Non è magnifico che dietro quest'uomo ci sia la scritta "MARKETTE"?
  
Daniele, basta così? Ti mordi questa linguetta dispettosa?

Berlusconi non è il male più grande dell’Italia, ma certo non è stato per l'Italia portatore di grandi benefici.
Innanzitutto, con il Silvianesimo la politica è diventata ShowBiz, i fatti sono scomparsi a favore delle descrizioni, la realtà si è trasformata in narrazione, la visione delle cose è stata sostituita dalla percezione. Lo schema ha funzionato e ha stabilito regole ferree: apparire, apparire, apparire. Dichiarare, dichiarare, dichiarare. Smentire, smentire, smentire.
La sovraesposizione di sé propria del Cavaliere ha generato un’alterazione della percezione; che lo si condivida o meno, Berlusconi è diventato necessario alla politica, anzi, di più: quasi sinonimo di politica. La sua strategia di marketing ha funzionato alla grande: depauperamento della cultura in politica, in società, nella comunicazione. Perché due categorie di persone possono pensare che il controllo dell’informazione e dell'intrattenimento operato da Berlusconi non abbia avuto effetti sulla popolazione: persone sprovvedute o persone in malafede. La comunicazione ha un potere immenso. Non si tratta soltanto di pubblicità o di spettacolo: saper utilizzare tecniche specifiche del settore restituisce un immenso potere, e tale potere fa ottenere risultati.
Mediaset (o Fininvest, come si chiamava prima) ha depositato un sostrato culturale innegabile. Associato a esso, ha distribuito idee, ideali e valori che sono stati determinanti nella formazione di almeno una generazione. Uno dei motivi per cui ha funzionato risiede nel fatto che, almeno in Italia e ancora oggi, la televisione come mezzo di informazione e formazione è ritenuto affidabile, e un’informazione o un concetto rilasciati attraverso di essa sono recepiti come oggettivi.
Chi scampa la televisione, viene raggiunto dalle testate giornalistiche violente edite dalla famiglia B o da altre forme di trasmissione del messaggio. La carta stampata del gruppo ha sdoganato l’uso di parolacce in prima pagina, l’insulto, lo sberleffo inserito in un contesto di serietà, prendendo precipue caratteristiche dei giornali satirici (per esempio il linguaggio colorito de "Il Vernacoliere") e affiancandolo alle linee guida di riviste "di regime", di partito, settarie e ostili a tutto ciò che rappresenta altre forme di pensiero o di giudizio.


Esempio di giornalismo misurato e per nulla sensazionalistico.


La trasmissione di un messaggio non è soltanto la consegna di un significato, ma anche (e in certi casi soprattutto) la modalità di consegna, la creazione di un significato attraverso la scelta del mezzo utilizzato per diffonderlo e la ragnatela si sottintesi che sta dentro al messaggio stesso. La carta vincente del Silvianesimo è da  un lato il vittimismo (tutti ce l'hanno con il povero Silvio, tutti lo insultano, lo osteggiano, rendono impossibile che realizzi le grandissime imprese che avrebbe tutte le capacità di portare a termine), dall'altro il disprezzo figlio di un senso di superiorità. Silvio si sente (e si mostra) superiore a tutti. Anche davanti ai suoi accoliti. Egli è migliore, in ogni ambito.
Chiedete a Zoff.
Non accetta critica, né sopporta il dialogo. Il Silvianesimo (così come la politica vista dal dinamico duo Grillo - Casaleggio) è monologica, non dialettica. Di fronte al dialogo, arretra, si arrocca e lancia attacchi. Se rifiuta il contatto con altro da Sé, non soltanto è uno sterile monologo, ma addirittura un atto masturbatorio. Non porta a nulla, non genera figli, è determinata e mossa soltanto dal desiderio di compiacersi.
Dopo vent'anni di una politica fatta di pugnette, ammetto di essere un po' stanco.
Non si tratta di disamore, quanto di totale assenza di speranze, di prospettive di cambiamento, di positività. Ieri sera ascoltavo Mulè dibattere con Augias a Otto e mezzo. Mulè incarna lo stereotipo del Berlusconiano DOC. Le tecniche oratorie sono quelle di tutti gli altri: si parla con supponenza, mancanza di rispetto per l'interlocutore; si provoca in continuazione, si impedisce il dialogo utilizzando strumenti triti e ritriti (interrompere l'avversario mentre parla, parlargli sopra), ci si dipinge come vittime di un qualche non meglio precisato "schema", che mira all'assunzione del potere calpestando tutto e tutti (i Comunisti, la Magistratura, la Sinistra, la Stampa in generale, i Movimenti di protesta o altri nemici intercambiabili), si ripete il mantra in voga nel periodo (con la reiterazione di determinate parole chiave), solite cose.
Nauseanti cose.


Mannaggia la pupazza.

Eppure gente in piazza ce n'è. Persone che accolgono la vulgata del Silvianesimo e partecipano con convinzione alla celebrazione del loro profeta; si ritorna al concetto di narrazione, mille miglia distanti dalla politica. È ShowBiz, baby.
E per tutti noi, osservatori stanchi e fiaccati da anni di repliche? Siamo un po' come Bill Murray in "Ricomincio da capo". La sveglia suona, scendi dal letto, scopri di essere intrappolato in un eterno ieri, un giorno già vissuto destinato a ripetersi in eterno.
Sono un maledetto sognatore, lo ammetto. Fino a qualche anno fa avrei detto che per interrompere il sortilegio la ricetta è semplice: fare cultura. Punto.
Oggi? Ammetto di non esserne più tanto sicuro.

Siano ancora nella notte del Silvianesimo, un'epoca oscurantista e fastidiosa, popolata da cortigiani e da uno che ha fatto danni incalcolabili al sistema Italia pur riuscendo a mantenere un'immagine di Sé vincente. Un uomo che ha guidato la più ampia maggioranza di Governo della Storia Repubblicana, eppure è riuscito a non combinare un piffero. Uno che viene amato dalle persone più umili, più deboli e da quelle più asservite e opportuniste. Una notte senza stelle, caliginosa e terribile.
Come si esce da questa notte?
Saperlo, Signora Mia...
Gli schiamazzi di Renzi, Grillo e Silvio riempiono il buio di un assordante frastuono, una comunicazione fondata sul chiasso e non sul messaggio, una comunicazione massiva, piena di informazioni, di contrasti, di elementi simili, ma priva di un contenuto "univoco" e riconoscibile, un concetto che in semiotica si chiama "rumore".
La danza che ci fanno danzare è uno sconclusionato sistema di passi scoordinati, utile a far passare il tempo mentre altri consumano le nostre prospettive.
Forse dobbiamo continuare a provarci: fare cultura, ognuno nel suo piccolo. Criticare, proporre, costruire. Riscoprire il gusto e la necessità del dialogo.
Magari non servirà, e un giorno scopriremo di non aver ottenuto grandi risultati... Ma almeno potremo dire a noi stessi di averci provato. 

lunedì 18 novembre 2013

Violenza: uno studio comparato del Blogger Occasionale

Quando si affronta il tema della VIOLENZA, è sempre bene farlo con cautela.


Marchio registrato.

La violenza è uno di quegli argomenti che inducono la gente a tenersi a debita distanza, fischiettando, oppure prendendo immediatamente la posizione della maggioranza. “La violenza è orribile”, “La violenza è un abominio”, “La violenza è il peggio dell’umanità”.
Per questo vorrei parlarvi di un libro molto violento. Ha ottenuto una grande fama, diciamocelo, anche se la ritengo immotivata. Credo sia il libro più venduto. Quando dico che è violento, dico sul serio, eh. Mica pizza e fichi, è una roba piena di sangue, teste mozzate, fanciulle discinte, centinaia di carneficine.
Per dire, c’è un tizio che fa decapitare i figli di una persona che non gli va a genio, settanta capocce, e a un certo punto c’è ‘sta frase qua: “Quindi posero le loro teste nei panieri e le mandarono da lui”. Ribrezzo! Settanta teste nei panieri!
Violenza! Epperò ‘sto libro vende.
Poi c’è questa storia, praticamente un tizio ordina un attacco a una città, la città viene distrutta e come ciliegina sulla torta capita questo: “(…) fece sventrare tutte le donne incinte”.
Cazzo, che botta. Una roba turpe.
Ma non finisce qua: sentite che fine argomento legislativo viene introdotto. Un re stabilisce una legge; per cautelarsi introduce una norma secondo la quale, se qualcuno mai dovesse pensare di modificare la nuova legge, ebbene a ‘sto folle capiti che: “si tolga una trave dalla sua casa, la si rizzi ed egli vi sia impiccato. E poi la sua casa sia ridotta a letamaio”.
Minchia. “A letamaio”.
Che storia! Un indizio: non è “A game of Thrones”.
Ci stanno pure gli orsi. “Allora uscirono dalla foresta due orse, che sbranarono quarantadue fanciulli”.
E poi, signori, il capolavoro assoluto, la violenza delle violenze, il punto più basso di ‘sto libro infame. Dei tizi assediano una casa, e minacciano di far del male a un ospite del proprietario. E con la frase “fare del male” intendo dire che vogliono inserire il loro tronchetto nel vaso di quel signore. Mi sono spiegato?
Insomma, si vogliono ingroppare il tizio.
Allora il padrone di casa che lo stava ospitando, per venir fuori dalla delicata situazione, se ne esce con la trovata del secolo: “Ecco qua mia figlia, che è vergine, e la concubina dell’uomo; io ve le condurrò fuori e voi abusatene e fatene quel che vi piacerà; ma non commettete contro quell’uomo una simile infamia!”.
Capito? Inchiappettate mia figlia e la moglie del mio ospite, ma non il mio ospite! Che gran soluzione!
E poi ci si lamenta se i ragazzi si menano, se ci sono le guerre, se chi gioca ai videogiochi poi diventa un omicida di massa. La violenza viene diffusa anche dai libri! Son letture che ti segnano, che ti turbano, che ti instillano un senso di rappresaglia, di vendetta, di sete di sangue. Come può la società civile sopportare che simili cattivi maestri vengano dati alle stampe e diffusi impunemente?
La violenza è in ogni prodotto che ci circonda: negli iPhone costruiti da operai ridotti a schiavi, nella passata di pomodoro resa possibile dall’abuso di lavoranti sottopagati, nalla competitività alimentata sin da quando siamo in fasce, nel sottotesto della ricerca del successo (“Mors tua, vita mea”), in mille altre cose.
E poi i film violenti, maledizione, cosa vogliamo dire? Cosa si può pensare di Tarantino, se non che intende fomentare i selvaggi che vedono i suoi film? E Di Cronenberg? E poi quell'altro ancora, John Woo? O tutte quelle pellicole dell’orrore dove ci stanno gli zombie che ti sbocconcellano manco fossi un bastoncino Findus? Oh, Dio ce ne scampi.
Se può.
Però non so se Dio può.
Perché il libro di cui parlavo prima si intitola “La Bibbia”.

Ancora vivi?
Fate un bel respiro.
Ancora uno.
Ancora uno.
NON SMETTETE!
Oh, se smettete schiattate, me l’ha detto uno che fa il medico!

Morale della favola? La violenza del mondo non è la violenza del cinema, dei videogiochi o di certi libri (questa volta alludo proprio a “A game of Thrones”): appartiene all’umanità. A noi tutti. È compito delle società trovare strumenti per sublimarla, sbarazzarsene prima che da attitudine sopita diventi mattanza. Questi strumenti possono essere culturali, artistici, sociali. Reprimerla non porta a grandi risultati, e nemmeno ignorarla. Non parliamo del caso in cui venga assunta a modello governativo o economico, e fatta passare per altro.
Perché questo post inconcludente? Perché mi sono rotto i –BEEP- di gente che si ferma alla superficie dei fatti, concentrandosi su come appaiono le cose piuttosto che su quel contengono o vogliono dire. Perché l’approssimazione e il pregiudizio sono due elementi che dovrebbero mettere in allerta: tanto più sono diffusi, tanto meno la società che li esprime ha tempo davanti prima di un inevitabile collasso.

O forse è solo che è lunedì, piove, e la situazione è quel che è.
Un messaggio di speranza, alla fine.
Alfano, siamo tutti con te. 
Anche Dio è con te.

Ops.


Quindi…occhio!!!!!!

sabato 16 novembre 2013

The Host, aka Gwoemul, aka Renato Brunetta NON CONTENUTO, aka Lo Spettatore Occasionale e il Monster Movie quasi definitivo

Gli ingredienti che rendono un monster movie un buon monster movie sono in sostanza quattro: che vi sia un crescendo di tensione e devastazione, che l'azione sia gestita bene e dosata in maniera soddisfacente, che i personaggi e le loro dinamiche siano interessanti, ma non centrali e che, infine, ci sia un mostro.





Dov'è KFC? Dov'èèèèèèèèèèèèèè?

Un mostro realizzato in modo decoroso, con personalità, possibilmente feroce o, al contrario, verso il quale provare empatia.
Ci sono monster movie riusciti (Gojira, 1954), riusciti a metà (Cloverfield, 2008) e non riusciti manco per il cazzo (Godzilla, 1998). E poi c'è Pacific Rim (2013), che meriterebbe un discorso a parte.
Pacific Rim, che è, ricordiamolo, un capolavoro fatto e finito.
Punto.
A capo.
Andiamo avanti.

Se partiamo dall'assunto secondo il quale i monster movie sono nati con King Kong (USA, 1933), ma esplosi più tardi con Gojira (Giappone, 1954) e le sue filiazioni, è logico pensare che l'estremo oriente abbia una certa sensibilità rispetto al tema, e riesca a maneggiarlo con perizia e inventiva. Non soltanto gli amici del Sol Levante sanno cucinare titani gommosi spaccatutto, ci stanno anche i coreani! I coreani spaccano! Non nel senso che sono dei mostri, sia chiaro. Non sono dei mostri. Non tutti, che io sappia. Forse quel pazzo che ne governa un pezzo. Quello è pazzo sul serio. Ci starebbe pure bene in un monster movie, a onor del vero. Fosse un po' più alto, non dico otto piani, ma almeno un metro e mezzo.
Punto.
A capo.
Andiamo avanti.




Sticazzi.



Il film di cui vorrei parlarvi oggi si intitola Gwoemul, che in coreano significa "Renato Brunetta". No, non è vero. In coreano "Renato Brunetta" si dice "Tyrion Lannister". Nemmeno questo è vero. Cazzo ne so come si dice Renato Brunetta in coreano, immagino si dica Renato Brunetta, punto.
Gwoemul, pellicola sudcoreana del 2006 diretta da Bong Joon-ho, è un Kaiju movie con tutti i crismi. Un plot basico, personaggi interessanti, ma non ingombranti, un mostro schifoso e affascinante al tempo stesso. Alla distruzione totale sostituisce una serie di uccisioni creative, dovute in gran parte al fatto che il pescione protagonista non è sufficientemente sviluppato per riuscire a buttare giù un grattacielo dopo l'altro.
Gwoemul (che in coreano significa letteralmente MOSTRO) funziona sin dalla prima scena, sfoggiando un cura minuziosa nei dettagli e una fotografia raffinata. Il gioco di luci nel laboratorio in cui si consuma l'antefatto, e subito dopo il suicidio di un tizio che si getta nelle acque del fiume Han, definiscono perfettamente una cornice di tensione e di abbandono, suscitando sensazioni di spaesamento, di ineluttabilità, di minaccia. Il grigio è il tono dell'overture, il tocco che mette in mette in moto il meccanismo.

Contrariamente ai classici film di mostri, Gwoemul dimostra un certo coraggio. Per prima cosa, come già anticipato, riduce le dimensioni della creatura protagonista, scegliendo un design più naturale rispetto a linee guida fantastiche. Naturale nel senso che sembra vagamente un pescione mutante, oh, non dico che domattina potreste trovarne uno in giardino... Altrimenti finisce poi che metto in allerta gli autori di Mistero e ve li trovate alla porta in men che non si dica...
In secondo luogo non lesina nel mostrare il proprio protagonista: l'essere compare in una memorabile scena a pochi minuti dall'inizio e lo fa in pieno sole, a pochi passi dal fiume, in un luogo aperto dove ci sono persone che pranzano, giocano, ascoltano musica sdraiate nei prati. La sequenza con la quale viene introdotto il mostro è perfetta: c'è una lontana apparizione di qualcosa che da un ponte scivola in acqua, si genera tensione. In apparenza scompare. Si genera aspettativa. In lontananza si profila una sagoma sgraziata, che si avvicina al protagonista umano con incedere sgraziato e minaccioso: il commento musicale è minimo. Il montaggio che segue efficace e terribile: una carneficina annunciata. Ecco a voi la scena incriminata.





In seguito all'attacco, scompare una ragazzina, figlia del tizio che all'inizio si era tolto la vita. I parenti (una combriccola sui generis, variegata, buffa ma non stereotipata) si mettono in testa di vendicare la piccola. La famiglia intera inizia a dar la caccia alla creatura.
Da quel momento in poi è azione, frenetica e mai scontata. Le sorti dei membri della famiglia in cerca di vendetta, vi terranno appiccicati allo schermo, e di certo non rimarrete delusi da quanto vi attende. Aggiungiamo a tutto questo un pizzico di sottotesto politico (l'ingombrante presenza dei militari americani in Corea, responsabili con l'inquinamento sconsiderato da loro prodotto, della nascita del coso pescione gigante), dinamiche tra personaggi notevoli e un body count non indifferente, e il monster movie (quasi) perfetto è servito.

In tutto ciò, come si configura Renato Brunetta? Direi in nessun modo, non c'è, non ha niente a che fare con questo film, è un'ossessione la vostra. 
 


AAAAAAAAAAAAARRRRRRRRRRRGGGGGGGGGGGHHHHHHHHHHH!


Non intendo aggiungere spoiler, godetevi lo spettacolo. Vabbè, vi dico soltanto che -SPOILER- non finisce malissimo. Ecco.

Amanti di una SF vecchio stile, amanti di mostri giganti, amanti di onesto cinema d'azione coreano (con effetti speciali della WETA, dai, diciamolo), amanti della frittura di pesce, e amanti dei brividi, questo film fa per voi: inseguite Gwoemul con la famiglia più disfunzionale della recente storia cinematografica coreana di Kaiju movie, scegliete l'arma che preferite e godetevi lo spettacolo!

mercoledì 13 novembre 2013

"I am Man (pausa) Borg", disse il nuovo idolo dello Spettatore Occasionale

Quando ho letto che questo film è costato 1.000 $, mi sono rannicchiato sotto una scrivania e ho pianto.
Ho pianto perché, se questa faccenda è vera, allora siamo tutti robetta e Steven Kostanski.è un califfo.


Amico mio, mi hai appena comprato
Manborg (2011) non è soltanto un film, è qualcosa di diverso: è la prova che fantasia e capacità possono sopperire alla mancanza di finanziamenti, che puoi infarcire una produzione di dollari senza necessariamente riuscire a realizzare qualcosa di rimarchevole. Se confrontiamo questa pellicola con un’altra dal budget decisamente superiore (per dirne una, Prometheus di Scott), ci rendiamo subito conto che non c’è storia. Manborg è un tripudio di trovate visive uniche, caratterizzato da un’estetica che è tutto meno che scontata, sorretto da una regia dinamica e citazionista, mentre Prometheus è una cagatella che inizia con DragonBall e finisce con Futurama.

E con ‘sta roba nera Lindelof ha rotto il cazzo. E prima mi metti il fumo nero in Lost, e mi sta bene. E poi il nespresso alieno in Prometheus, e passi. E ancora il sangue di Cumberbatch in Star Trek into darkness, nero pure quello: amico, senza offesa, ma hai davvero rotto the big C.

Il simpatico collettivo Astron-6 (entrato nelle grazie della Troma non per nepotismo, ci tengo a sottolineare, ma perché sono psicopatici e non fanno nulla per nasconderlo) intende omaggiare il cinema action SF anni ottanta, roba tipo Terminator o Robocop, inserendo citazioni che spaziano da Return of the Jedi, a Doom (intendo dire il videogioco, non il film con The Rock), a certe intuizioni del Verhoeven migliore, al Raimi artigiano degli esordi, a Burton prima che diventasse una macchinetta emo cacasoldi, alle aberranti avventure dei Power Ranger con i nemici gommosi, a Ray Harryhausen e a mille altre cose. La storia è semplice: una terribile guerra tra gli abitanti del pianeta Terra e le truppe infernali sconvolge l’umanità. Il protagonista è un soldatino al fronte, durante uno scontro con il leader dei malvagi (tenetevi forte: Count Draculon) perde il fratello e viene ucciso. Il corpo del nostro viene utilizzato per creare un Cyborg, Manborg, che si unirà a una varipinta masnada di ribelli e lotterà al loro fianco per porre fine all’impero del male.
Ora, considerata l’epicità del contesto, vi domanderete come minchia sia possibile aver girato una roba del genere con 1.000 $. A tale quesito lascio che a rispondere sia il trailer.



Non si respira aria di genialità? Io credo proprio di sì. È puro intrattenimento old school, una commovente dichiarazione d’amore per un cinema che diventa sempre più raro (ammesso che ancora esista). Non ci sono tempi morti, non ci sono scene inutili o riempitivi frustranti, soltanto il minimo indispensabile per tenere in piedi la struttura del film. La mancanza di fondi ha reso necessario un massiccio utilizzo di green screen: un presunto limite che ha contribuito a proporre soluzioni estetiche che sembrano una versione di Tron sotto LSD. Tutto è retro: dai fondali, ai mostri animati in stop-motion, alla linearità del plot, all’idea portante del futuro distopico che viene rappresentato. La follia di Kostanski è in ogni dettaglio: i personaggi sono archetipi e stereotipi di una certa SF, omaggi all’horror (Draculon / Dracula, la ribelle Mina porta il nome della moglie di Harker, uno dei protagonisti del Dracula letterario di Stoker), personaggi che richiamano icone pop, come il tizio che sembra Billy Idol, la vertigine data dal doppiaggio insensato di Number One Man, esperto di arti marziali con dizione da primo attore del Globe Theatre.
Che roba, gente. Diverte, appassiona, mescola le carte, ma soprattutto non inganna e si mostra per quel che è. L’ipertrofia di certi prodotti d’intrattenimento delle Major (specialmente negli ultimi anni), che sono pieni, saturi, strabordano, che offrono troppo nel tentativo di accontentare tutti è lontana anni luce. Il risultato è che spesso risultano indigesti (vedi Man of Steel, mortacci sua). Astron-6 invece procede per sottrazione: leva di mezzo tutto quel che non serve e garantisce un prodotto magro, agile, bio. Alleggerisce, non appesantisce. Per dire, c’è questa scena: Manborg si risvegla e vaga per una città futuribile: luci al neon dappertutto, bizzarri veicoli che sfrecciano per le strade, degrado, messaggi pubblicitari del nuovo governo infernale. Improvvisamente si imbatte in una serie di mostri (?) che menano dei tizi. Interviene, patatrac, incontra Number One Man, fugge con lui. I mostri saltano sul posto e sotto i loro piedi si materializzano degli skateboard costituiti da una sorta di energia violetta fluttuante, quindi inizia un folle inseguimento cittadino.
Oppure beccatevi questa:



Puro intrattenimento. Onesto, fresco, veloce, lisergico e con un finale… Un finale semplicemente da urlo.
1.000 €. Ci tengo a sottolienarlo.
Leviamoci il cappello dinanzi agli Astron-6.



Ho come la sensazione che stia per accadere qualcosa di brutto.
 Guardatevelo subito tutti!
È un ordine di Count Draculon!

lunedì 11 novembre 2013

Il Videogiocatore Occasionale: Toy, Mirror, Art.

Nel 1977 era il 1977.
Lo so che è una notizia sconcertante. Immagino che si debba scendere a patti con rivelazioni del genere. Che ci vogliamo fare, è la vita.
Magari uno potrebbe essere portato a pensare che nel 1977 non era il 1978 o il 1976 o il 1980, ma precisamente il 1977.


Ti dico che sono il 1977, tiggiuro!

Consapevole di questa faccenda, il professor Paul Levinson (all'epoca studente) scrisse una breve dissertazione dal titolo "Toy, Mirror, Art; The metamorphosis of technological culture". All'interno di questo testo, il futuro professore di comunicazione e media alla Forham University di NYC tracciava un sistema di analisi della cultura tecnologica secondo il quale ogni invenzione che abbia impatto sulla comunicazione o l’intrattenimento attraversa tre stadi evolutivi.
I tre stadi sono elencati nel titolo: Toy, giocattolo. Mirror, specchio. Art, arte.
Che cosa significa tutto questo?
Cazzo ne so.

No, dai, scherzavo, rimettiamoci seduti e partiamo, con piglio più accademico questa volta.

Toy, Mirror, Art.
Prendiamo il cinema. Il cinema nasce grazie ai fratelli Lumiere.





Due tipi moderni.

La loro invenzione (la macchina da presa) è un "giocattolo", grazie al quale realizzano brevi sequenze filmate da mostrare in occasione di fiere, manifestazioni culturali, momenti di svago. La tecnologia è un gioco, il prodotto della tecnologia è un gioco: passatempi privi di dignità artistica. Toy.
Con l'evoluzione del mezzo e la diffusione della tecnologia, il cinema si interessa non tanto della meraviglia di intrappolare immagini in movimento (quindi non tanto del processo che consente di realizzare i filmati), ma di ciò che viene ripreso, dell'oggetto che viene inquadrato. In questo senso diventa testimone e specchio della realtà. Mirror.
Con la nascita fortuita del montaggio (evitate facili allusioni), il cinema scopre di poter raccontare oltre che mostrare. Il racconto diventa, insieme al mezzo, uno straordinario veicolo di significati, di emozioni, di suggestioni; un film non è più soltanto un artificio tecnico, ma un contenitore artistico. Art.

Il cinema è parte integrante di un complesso che possiamo definire "intrattenimento multimediale". All'interno di questo insieme di strumenti finalizzati a farci passare qualche ora in compagnia di suggestivi prodotti dell'ingegno umano troviamo anche -rullo di tamburi -i videogiochi.
Anche i videogiochi hanno attraversato le loro variegate stagioni, i loro step evolutivi, scanditi dalla progressione teorizzata dal buon vecchio Levinson.
Per paradosso, la fase Toy è inestricabilmente legata alle successive.
Tre esempi, uno per ciascuno stadio.



Pac-Man: Mangio fantasmi da più di trent'anni e non ho preso un etto.

Pac-Man  è un chiaro esempio di Toy, un gioco schematico, ripetitivo, caratterizzato da una meccanica semplice, ma al tempo stesso capace di conquistare e indurre a giocare. Un esempio più recente: Angry birds. Tirare piccioni con una fionda contro dei maiali. Wow.
Eppure è un gioco che prende, che innesca il meccanismo "ancora una e poi smetto", però poi non smetti.



The Kite: Ammazza, che passatempo ilare.
Fase Mirror: The Kite. Avventura grafica di un paio di anni fa, ricorda per meccaniche di gioco i vecchi e gloriosi punta e clicca. Ci sono quadri all’interno dei quali raccogliere oggetti e risolvere enigmi. Completate le prove di un quadro, si passa al successivo e così via.
Che cosa rende The Kite diverso? Il tema e il tono dell’aspetto narrativo. La storia che si dipana tra i quadri è quella di una madre alla prese con le difficoltà di crescere un figlio in una periferia degradata, con a fianco un marito violento. Lo sfondo è quello di una repubblica ex-sovietica, abbandonata e grigia, popolata da personaggi privi di speranza e dolorosamente schiavi delle proprie vite in "scatola". Seppure breve e non privo di difetti, The Kite mostra come attraverso una forma narrativa partecipata si possa affrontare un tema scomodo e disturbante, inducendo a riflettere. Non è poco.

Per il terzo stadio, Art, la questione si complica.
Quindi ne parleremo nel prossimo post dal Videogiocatore Occasionale.
Sarà un po’ un azzardo, un po’ una bestemmia (per qualcuno, forse), un po’ una forzatura.
Non si tratta di un gioco soltanto, ma di tre titoli.
Non aggiungo altro.
Alla prossima.