giovedì 13 marzo 2014

Il Cineocchio colpisce ancora: Gloria alla corte dello Spettatore Occasionale

Secondo appuntamento con la rubrica casuale "Uno Spettatore Occasionale al Cineocchio di Alba". Secondo film per il sottoscritto: Gloria di Sebastián Lelio.


Gloria è una cinquantottenne divorziata, con due figli adulti che sembrano averla dimenticata. La sua vita è fatta di lavoro e serate in locali frequentati da coetanei in cerca di divertimento. L'incontro con Rodolfo, recentemente divorziato, sembra portare un cambiamento nella vita di Gloria. Il travagliato rapporto che instaura con lui la costringerà a dover fronteggiare la sfida più difficile: guardare se stessa con onestà, smettere di nascondersi, tornare a essere il centro del proprio mondo.

La prima considerazione da fare sulla pellicola in questione è questa: il regista e co-sceneggiatore, Lelio, ha quarant'anni compiuti da poco. Inoltre è un uomo.
So che possono sembrare due informazioni risibili, ma nel complesso affresco femminile portato in scena sono elementi importantissimi. Per prima cosa inducono a rendere merito al regista, perché è riuscito a tratteggiare in Gloria una figura credibile e viva (tanto da accompagnare la strepitosa interprete, Paulina Garcia, all'Orso d'Argento). In secondo luogo ne confermano le capacità di analisi e drammaturgiche, considerata la giovane età.

Lelio si avvale di una fotografia desaturata, contraddistinta da colori spenti e opachi. Gli unici eccessi sono dati da alcuni capi d'abbigliamento di Gloria, vistosi e sgargianti. Il Cile immortalato nel film è un luogo in bilico tra un passato ingombrante e un presente incerto. Un paese ferito popolato da persone confuse e incomplete, fragili, in cerca di redenzione o semplicemente di oblio.
Il tema del sesso in mezza età è trattato con tatto e coraggio. La macchina da presa usa sempre un certo rispetto nell'inquadrare Gloria. Ogni tanto le riprese vengono effettuate da una certa distanza, specialmente quando la protagonista è sola o si trova in un momento di debolezza (appena sveglia, in ansia).
Lelio la tratta con garbo, riuscendo al tempo stesso a non farla mai scivolare in secondo piano. Ricorre a un procedimento anaforico quando vuole che emerga chiaro il ritmo ripetitivo e schematico della sua vita (per esempio nelle ripetute sequenze in auto, quando il movimento è sempre in direzione sinistra verso destra, e Gloria reitera la stessa azione del canticchiare insieme alla radio); devia dalla ripetizione quando vuole esaltare un momento particolare, ricorrendo a movimenti di macchina aggraziati e precisi.

Gloria (nomen omen) ha alle spalle un matrimonio fallito, vive un rapporto difficile con i figli e cerca di colmare i vuoti che avverte con incontri fugaci, corsi estemporanei, avventure dal sapore adolescenziale. Ha paura di restare sola. Il mondo che la circonda è minaccioso (le urla del vicino di casa al piano superiore, i rumori molesti, violenza che non viene mai mostrata).
L'incontro con Rodolfo sembra alludere a un imminente cambiamento, uno stravolgimento vero e proprio, una seconda possibilità. Se un film che si intitola Gloria mette in chiaro sin da subito l'importanza che attribuisce nei Nomi, l'altro personaggio non può che chiamarsi come Rodolfo Valentino, il Latin Lover per antonomasia. Tuttavia, esattamente come il Cile che ospita la vicenda, anche Rodolfo è in subbuglio: divorziato da poco, reduce da un intervento chirurgico che gli ha consentito di perdere decine di chili, è ancora in via di assestamento. In una battuta rivolta a Gloria esplicita questo concetto: le dice che l'operazione subita ha cambiato il suo corpo, ma la parte più difficile è ora quello che intende fare a se stesso. Cambiare atteggiamento, mentalità. Liberarsi dal peso del matrimonio fallito, anche se, contrariamente a Gloria, le figlie ormai adulte avute dalla moglie rendono il distacco complicato. Se Gloria è ignorata dai figli, Rodolfo è assediato.

Il nostro Latin Lover si mostra molto fragile; ancor più che debole, meschino e pavido. A ogni chiamata delle figlie o contatto dell'ex moglie, corre, scappa, scompare. Gloria investe nella relazione, tenta di allontanarsi quando scorge segni di inaffidabilità, ma poi torna indietro e concede un'altra possibilità. Possibilità destinata a essere disattesa; il personaggio maschile è patetico, la quintessenza di macroscopici difetti del genere (immaturo, bugiardo, permaloso, indeciso). Al termine della vicenda fugge, lasciando Gloria da sola, nel ristorante di un Hotel fuori città dove avevano in programma una vacanza romantica. Fugge senza nemmeno pagare il conto, richiamato all'ordine dalle figlie.

Gloria si arrende all'evidenza. Non può esserci futuro con lui. Nel momento forse più triste dell'intero film, chiama la sola persona sulla quale sa di poter contare: la domestica. Sarà questo personaggio semplice, dimesso e di poche parole a tirarla fuori dai guai, riaccompagnandola a casa.

Nella parte conclusiva Lelio scioglie i nodi rimasti e si avvale di alcuni elementi simbolici un po' grossolani (seppur efficaci). Gloria si sottopone a una visita oculistica, scopre di avere un glaucoma e di dover seguire una cura per tutta la vita, pena la perdita progressiva e irreversibile della vista. Vaga per un centro commerciale, trova un burattinaio che tiene uno spettacolo davanti a un capannello di gente: il pupazzo che anima è uno scheletro (più chiaro di così...). Glaucoma più scheletro uguale Morte. Morte nel senso di fine, fine nel senso di necessità di tracciare un bilancio. Per Gloria la vita cos'è? Che cos'è stata? In che modo la sta vivendo? Si nasconde o la affronta? Il burattino a forma di scheletro danza, animato da un burattinaio mai inquadrato.
Gloria si china, offre qualche moneta e lascia lo spettacolo.

Un'ultima festa, l'ennesima sala da ballo. Gloria esce, fa due passi nel giardino adiacente al padiglione, vede un pavone bianco. Ha la coda aperta, un po' povera di piume a onor del vero. Torna indietro, siede a un tavolo, da sola. Rifiuta l'invito di uno spasimante, la richiesta di un ballo. Sorride.

Infine va sulla pista, da sola, e balla, sempre da sola. La canzone è Gloria, di Tozzi. La danza è inizialmente impacciata, poi più coinvolta, poi liberatoria. Gloria non ha più bisogno di nascondersi dietro storie traballanti o amicizie estemporanee: può vivere e può essere felice da sé, succeda quel che deve succedere.

Lelio confeziona uno spettacolo coinvolgente, non superficiale e capace di far riflettere. Alcuni aspetti mi hanno convinto poco (la caratterizzazione dei personaggi che ruotano intorno a Gloria è minima, a tratti poco credibile, sembra scritta per rendere più agevole la loro scomparsa dal quadro d'insieme), ma nel complesso mi ha convinto e non deluso.

Lo Spettatore Occasionale approva Gloria: non ha l'impatto emozionale del precedente, ma è una pellicola ben riuscita.
Alla prossima con Blue Jasmine!

lunedì 10 marzo 2014

Dead Set: lo Spettatore Occasionale, gli Zombie (o Diversamente Vivi), Merry Fucking Christmas

Non so che rapporto abbiate con gli zombie (a  me stanno simpatici, per dire), non so nemmeno se ne tenete uno in casa legato a una PlayStation, non intendo mettervi a disagio se siete appena stati morsi e state cercando di evitare che i vostri amici vi impallinino nel cranio per non essere masticati e soprattutto non ho nessuna intenzione di iniziare una crociata contro i non morti. 
Dimenticavo: World War Z è una [white noise] molle e puzzolente, insensata, priva di sangue e con i morti viventi più anonimi che si siano mai visti sul grande schermo.
Cioè, è così una [white noise] che mi fa quasi rivalutare Io sono leggenda, che era una bella cagatella pure lui. Ma forse sto esagerando (e divagando).
Appurato il fatto che nessuno dei presenti ha pregiudizi nei confronti dei diversamente vivi, vorrei parlarvi di una miniserie british che si occupa delle carcasse mangiacristiani di cui sopra, squisitamente retro nel plot, con qualche timida concessione ai non morti centometristi cari alle ultime pellicole che li pubblicizzano e una riscoperta del valore "sociologico" della metafora che sta alla base del concetto stesso di morto vivente.
Tale opera dell'ingegno umano è intitolata Dead Set e, lasciatemi dire, è una bomba. 
BOOM.
La trama? Poco prima della messa in onda dell'ennesima puntata del Grande Fratello (english version), una "epidemia" si diffonde per il Regno Unito. Le persone muoiono, poi si risvegliano, poi ti vengono vicino e tu dici: Wow, ho fatto colpo. Poi ti staccano un orecchio e capisci che no, non hai fatto colpo, sei solo diventato la loro cena.
Tecnici e occupanti della casa del reality si ritrovano asserragliati all'interno del Set, senza informazioni su ciò che sta accadendo, assediati dai diversamente vivi e impotenti di fronte alla minaccia che sembra sul punto di sterminare il genere umano. Riusciranno i nostri eroi a venir fuori da questo bordello?
Seguiranno spoiler.
Siccome è da poco passato Natale, mi sento di farvi dono del primo episodio.


Che dire? Gli inglesi confezionano un prodotto raffinato e ricco di riferimenti alla culura Pop degli anni duemila. Grande Fratello, la società dell'immagine, la massificazione degli individui, la reificazione dell'umano, antani, il dissidio insanabile tra apparire ed essere, le supercazzole, insomma un mondo di contenuti sorretti da una struttura tecnica di primo livello.
Voglio dire, la regia è generosa e mai scontata. Gli attori sono adeguati e riescono a regalare momenti ora toccanti, ora disturbanti, ora sanguinosi.
Uno dei topoi del cinema di zombie -a mio modestissimo avviso -è l'impossibilità del lieto fine. Qualunque sia il punto di vista scelto dal narratore, è impossibile che un mondo, all'interno del quale la legge di separazione vivi - morti cessi di esistere, possa continuare semplicemente a essere. Tale concetto, tale assoluta dicotomia sta alla base di ogni sovrastruttura culturale umana; la religione stessa (nelle sue molteplici forme) si fonda su tale principio. Se tu lo scardini, fai saltare tutto di conseguenza.
Fatta salva la premessa di cui sopra, ne consegue che non può esserci un lieto fine, in qualsiasi forma lo si voglia intendere.
Dead Set non fugge questo principio di base e regala -SPOILER- un finale in linea con il pensiero dello Spettatore Occasionale.
Ora procedo con -SPOILER- totali.
L'infezione che dilaga per Londra e per il mondo non può essere né controllata, né arrestata. I nostri protagonisti, asserragliati all'interno della casa del Grande Fratello british se ne rendono conto e tirano a campare. Quando il gruppo prende la decisione di lasciare il rifugio per andare altrove, in cerca di aiuto, vettovaglie, cibo, cazzi e mazzi, ciò a cui vanno incontro è lo sfaldamento totale della loro incerta unione. Paura, ipocrisia ed egoismo condannano i superstiti a morte. Non c'è salvezza dagli zombie, perché non c'è salvezza dall'essere UMANI. Il produttore del Big Brother, che incarna la deriva di individui ammalati di potere, condanna se stesso e gli altri alla morte, in un maldestro tentativo di fuga. Ciò che segue, il vero e proprio finale, è la resa di fronte all'inevitabile. Tutti diventano zombie. Non c'è più frenesia, non c'è più caccia, non ci sono più banchetti di carne umana, solo movimenti lenti e trascinati, sguardi vacui e una fascinazione per le cineprese che travalica il confine della morte.
Apparire non significa essere, essere soltanto per apparire significa morte.
Se non è un finale amaro questo, che cosa diamine volete da me?
In ogni caso, concludo con un ritardatario augurio di Buone Feste. Ok, non è la serie più Natalizia e festaiola del mondo, ma merita d'essere vista. Se volete rimandare a gennaio, tipo dopo il sei, per me va bene.
Però guardatevi Dead Set. Merita sul serio.
Prossimo appuntamento con lo Spettatore Occasionale entro breve.
Con Breaking Bad.
Breaking Bad è LA SERIE TV. 
Punto.
Ma è anche qualcosa di più, qualcosa di meglio, e molto altro ancora.
Stay tuned!
O vi mando degli zombie sotto casa!

Lo Spettatore Occasionale al Cineocchio di Alba. La Vita di Adele, parte 1 e 2

Nella ridente città di Alba si tiene annualmente una rassegna cinematografica. Tale rassegna si intitola IL CINEOCCHIO. Roba di Dziga Vertov, per intenderci.
Quest'anno, lo Spettatore Occasionale ha preso la decisione di fare la tessera e si è imbarcato nell'impresa di vedere (quasi) tutti i titoli proposti. Con il ritardo che gli si addice, il vostro impavido blogger fornirà una personale recensione dei film visti (dei quattro proiettati sinora, mi fermo colpevolmente a due). 
Iniziamo con La Vita di Adele, capitoli 1 e 2 di . Trionfatore del Festival di Cannes 2013, pellicola di apertura del Cineocchio di Alba, questo film ha colpito il cuore occasionale dello Spettatore -sapete come prosegue. 




Sinossi per chi non ne sapesse nulla.
Adele, adolescente francese, vive a Lille e conduce un'esistenza opaca, sino a quando incontra Emma; con lei imparerà che cosa significhi passione, che cosa sia l'amore, che cosa voglia dire crescere e, impresa più ardua di ogni altra, a quale prezzo di possa giungere all'accettazione di sé.
Se pensate che queste sbrigative righe siano troppo vaghe, non vi preoccupate: ora scenderemo nel dettaglio e saprò annoiarvi come al solito!

Kechiche trae ispirazione da una graphic novel di successo; si discosta sin dal principio dalla fonte, scegliendo di non concludere la vicenda con la morte della protagonista e di non impostare la narrazione in forma di flashback. Ciò che interessa a Kechiche è l'incontro di due mondi, senza elementi melodrammatici che ne appesantiscano le dinamiche.

Le prime inquadrature rendono evidente la scelta del regista: il centro di gravità del film è e rimarrà Adele. La porta si apre e la macchina da presa si incolla ad Adèle Exarchopoulos, senza cedere né allontanarsi mai. Lo sguardo è su Adele (attrice e personaggio), costi quel che costi, senza censure, remore o pudori. Che si tratti di mangiare, scopare, piangere, cantare, Kechiche investe tutto nei primi piani, nell'espressione smarrita di Adèle, nella sua prorompente sensualità, nella sua disarmante fragilità. Il percorso che compie è un movimento che dalla scoperta di sé porta allo smarrimento, e dallo smarrimento alla riaffermazione della propria individualità. 
Adèle scopre di essere diversa perché non condivide con le proprie coetanee frivolezze e desideri. Non c'è passione nella sua prima volta con un ragazzo, soltanto imbarazzo e un senso di insoddisfazione. Nella scoperta della propria omosessualità Adèle incontra l'ennesima complicazione, l'ennesimo ostacolo che sembra condannarla a un'esistenza solitaria. Il tutta la prima parte del film, il capitolo 1 al quale il titolo allude, c'è una grande compressione dei tempi: il tempo degli eventi è limitato a uno spazio di giorni, forse settimane. L'implosione del ritmo scandisce gli avvenimenti quasi fossero infiniti. È un percorso fatto di eventi chiave per la vita della giovane: prima viene delineato l'ambiente all'interno del quale è cresciuta, con poche immagini e dialoghi scarni. Una famiglia che condivide i pasti con quiz televisivi, in silenzio; gli unici dialoghi vertono sul cibo, poco altro. La scuola, con la rappresentazione disincantata di giovani alle prese con un mondo che tentano di capire; personaggi comuni, protagonisti di vite comuni. Ci sono le classiche dinamiche del branco, con un affresco femminile ammantato di crudeltà. Gli adulti, genitori esclusi, sono rappresentati da insegnanti che sembrano ora motivati, ora semplici impiegati intenti a ripetere qualcosa in maniera meccanica. Il regista dissemina la rappresentazione della scuola di elementi che ritorneranno nel dipanarsi della vicenda: accenni alla Tragedia ("l'individuo posto di fronte all'ineluttabile"), ai romanzi di formazione, a definizioni artistiche di Amore. 
L'incontro con Emma, colei che sembra essere ciò che Adèle cerca, scompagina le carte, introduce il blu nel film e fa accelerare la vicenda. Dall'incrocio per strada al sogno, all'incontro in un locale gay, sino all'appostamento davanti alla scuola, Emma assume le proporzioni di un idolo, il cardine intorno al quale la vita di Adèle è destinata a girare.
Nell'esplosione dei sensi (lo sguardo, il tocco, la vista, il sesso) Adèle ed Emma si incastrano, si compensano, si completano; nella costante ricerca di cesellare i due personaggi in un quadro più ampio, Kechiche disegna un rapporto speculare tra le famiglie delle ragazze: ci sono i borghesi con pretese intellettuali, mamma di Emma e compagno, e i semplici, pragmatici genitori di Adèle. Gli uni e gli altri appaiono inadeguati, smarriti, trincerati dietro maschere che generano distanza tra loro e le figlie. La passione diviene centrale, con scene di sesso esplicite, nessun suono extradiegetico, solo corpi e sospiri. Lo sguardo non è mai pornografico in senso stretto, è semplicemente coerente con l'assunto di base. Il centro di gravità del film è Adele, non importa che cosa faccia, con lo stesso desiderio di completezza si mostrano il sonno o la passione.

Tra il primo e il secondo capitolo il solco è profondo.

Ci ritroviamo presumibilmente anni dopo il loro incontro; Adèle cucina. Assistiamo a un party a casa di Emma e Adèle; ormai sono una coppia, vivono insieme. Appartiene al passato quell'Adèle che mentiva ai genitori per consentire a Emma di dormire in casa loro, definendola "amica". Se il primo capitolo faceva della compressione la cifra temporale del ritmo, il secondo accelera esplodendo il tempo. I pochi giorni della parte iniziale, divengono mesi, anni in questo capitolo. Se l'oggetto della capitolo 1 era la scoperta di sé attraverso i sensi, ora assistiamo alla progressiva perdita di quel fuoco, allo spegnersi della passione, alla deriva di una relazione tra opposti che prelude a una dolorosa separazione.

Adèle aveva incontrato Emma per la prima volta in una piazza affollata. Il colore blu dei suoi capelli cattura lo sguardo, la disinvoltura con la quale esibisce la propria omosessualità sbalordisce e confonde. Quando Emma e Adèle si incrociano, scambiano qualche parola, iniziano a frequentarsi, la relazione si fonda su una reciproca ossessione. Una fascinazione totale, quella di Adèle per Emma; un magnetismo sensuale ed estetico, quello esercitato da Adèle su Emma. L'ossessione evolve nel succedersi degli atti: in Emma la passione diventa ispirazione, in Adèle si trasforma in necessità. Quando l'equilibrio si spezza, quando Emma non si accontenta più di una Adèle che sacrifica tutta se stessa sull'altare del loro amore, riducendosi a oggetto di contemplazione e poco altro, la rottura è inevitabile. Adèle cerca conforto tra le braccia di un collega, Emma la caccia di casa, Adèle smette di muoversi.


La metamorfosi dei personaggi costruisce ribaltamenti. La semplice Adèle, che coltivava il sogno di insegnare ai bambini, vive la realizzazione del proprio progetto di vita con la tensione data dalla solitudine; Emma, che in Adèle aveva trovato una compagna e una musa, si butta in una nuova relazione e ricomincia a vivere. Nel continuo gioco di apparenze e illusioni, nessuna delle due protagoniste riesce a sciogliere il legame che ha con l'altra. Inutile lasciar passare del tempo, inutile vivere esperienze, nascondere la verità a se stesse: il marchio che hanno dentro le rende complici e unite, e sembra essere un vincolo indissolubile. 

Tutto ciò che nel capitolo 1 era mostrato ed esplicito (vicinanza, sesso, comunione) in quest'altra faccia della medaglia è relegato a una dimensione più intima. Adèle vive l'attesa di una riconciliazione senza rendersi conto di avere una vita che prescinde da Emma. Non ci sono dialoghi che rendano manifesto tutto ciò, perché il travaglio è negli sguardi, nei silenzi, nel pianto, nell'abbandono. 

Quando l'incontro avviene, quando Emma e Adèle tornano a vedersi dopo mesi, tutta la tensione è sull'asse Adèle - Emma. Pur essendo causa della rottura e vittima del dolore conseguente, è lei a mostrare la maggiore partecipazione. Emma è confusa, spaurita, debole. Adèle è forte nel proprio dolore, e quando tenta un approccio, inizialmente corrisposto, alla fine si scontra con il rifiuto dell'altra, e davanti a sé trova una persona cambiata. Non più l'artista con i capelli blu, ma un'opaca, conformista, comune donna che ha abbandonato quel che era per avere in cambio un'esistenza differente, in apparenza fin troppo ordinaria. L'ossessione di Emma è spenta; ora ha una famiglia, una compagna, una figlia. Un'esistenza normale, alla quale affianca un'esperienza artistica non più dettata dall'ispirazione, ma dalle precise richieste di chi le revisiona i lavori per renderli più vendibili. Ciò che resta del nucleo artistico del passato è l'immagine di Adèle.


Nel segmento conclusivo della pellicola, Adèle viene invitata all'inaugurazione di una mostra. Emma espone nuove opere. Adèle indossa un abito blu, si prepara, si illude, forse, e partecipa alla cerimonia.

Emma la accoglie con tenerezza, la osserva quando sono lontane, la tiene a distanza, quasi fosse consapevole del pericolo che rappresenta. Adèle contempla i quadri, in ciascuno di essi trova se stessa, trasfigurata, abbozzata, sempre centrale. L'ossessione si concretizza sulle tele: il legame è indissolubile? Il chiacchiericcio dei vuoti intellettuali che affollano la sala rende evidente che non esiste futuro, che non può esserci riconciliazione con Emma: i loro mondi sono distanti anni luce, la semplicità che Adèle sceglie come cifra di vita è incompatibile con la sovrastruttura verbosa e pretenziosa che tiene in piedi il mondo nel quale Emma s'è smarrita. 
La passione appartiene a un'altro tempo, forse, a un'età passata, o forse a persone che devono ancora essere incontrate, ad alchimie da sperimentare. 
Adèle, nel vestito blu scelto con cura per presenziare alla manifestazione, esce dal locale e si allontana, da sola. 
Non è una resa priva di speranza, nemmeno un gesto che conduca a insane follie d'amore non corrisposto: è la presa di coscienza finale che un capitolo si è concluso. Bisogna voltare pagina. 
La macchina da presa si ferma.
Lo sguardo ossessivo che ci aveva permesso di essere Adèle, ora la rende libera, ci rende liberi: con l'allontanamento della ragazza, una macchia blu sempre più distante, la vicenda trova la propria conclusione. 


Tutta la questione dell'omosessualità viene posta a latere. Non è centrale rispetto a un discorso che parla di formazione dell'individuo, di Amore, di scelte, di sconfitte, di perdita e di dignità; di che cosa significhi confrontarsi con le proprie debolezze e affrontare con determinazione le sfide che la vita ci pone innanzi, crescere, cadere, fermarsi, ricominciare.

In tale complessità di temi, le sollecitazioni sono molte. Quanto la vita ha da offrire occupa uno spettro ampio e frastornante: ogni passione lascia dei segni. Ma che vita sarebbe, se non avessimo la possibilità di portare i segni di ciò che viviamo? 

Il film di Kechiche mi ha coinvolto e convinto. Regia e fotografia, asservite ai volti che occupano per la maggior parte del tempo le inquadrature, esaltano interpretazioni magistrali, e consentono di entrare nel meraviglioso e irripetibile mistero di due individualità che condividono un pezzo di strada, poi si perdono, e infine, inevitabilmente, ricominciano da capo. 

La vita di Adele è un'esperienza che non può lasciare indifferenti. Date una chance a quest'opera: può essere un film difficile, faticoso, di certo non si dimentica facilmente. Inoltre induce a riflettere, pone domande, lascia spazio all'interpretazione: non è una cosa da  poco, considerata la tendenza all'omologazione alla quale il cinema va incontro da troppo tempo.

Vai, CINEOCCHIO! Siamo partiti bene! 

Prossimo post dedicato al secondo film visionato dallo Spettatore Occasionale: Gloria.

sabato 1 marzo 2014

Nostalgia canaglia: il Cittadino Occasionale combattuto tra i film dei Ninja, The Happening e un desiderio irrefrenabile di espatrio

Ve li ricordate i film dei ninja? Quei film terribili nei quali ci sono questi tizi in pigiama che saltellano? Erano robe inguardabili, eppure quando si è pischelli sono il massimo. Ci sono azione, confusione, una regia assurda con inquadrature sbilenche e zoomate su visi celati dalla stoffa, poi tutto un insieme di mosse che sembrano quelle che vi facevano prima di entrare in vasca durante i corsi di nuoto.




Uno dei motivi per i quali mi piacevano i film di ninja è questo: zero trama. Ok, ci poteva essere la vendetta di quello vestito di giallo, che gli avevano messo sotto il cane o rigato la macchina, oppure quello che gli avevano rapito la morosa, o ancora quell'altro al quale era stato ammazzato il maestro... ma in fondo era tutta fuffa per mostrare idioti vestiti da idioti che si menano, in un crescendo di follia e caos nel quale alla fine non capisci più chi sta con chi, le fazioni sono indistinguibili, è solo una massa di gente che se le dà con convinzione.
Regia? Ma non scherziamo neanche. Non c'è mestiere, non c'è organicità, direzione degli attori, cura della fotografia... 
Gente che si mena. Fine.
Secondo ingrediente: The Happening di Shyamalan. Questa simpatica pellicola del nostro indiano preferito, uscita nel 2008 con il titolo italiano di "E venne il giorno", racconta di una "guerra" tra umani e piante. Le piante, stufe di essere maltrattate (?) dai bipedi, sviluppano una neurotossina che, rilasciata nell'aere, induce le persone a suicidarsi. Non sembra una cazzata atomica? 
Ehi, ma è una cazzata atomica!



Shyamalan aveva cominciato bene, con quel film della gente morta. Poi aveva fatto Unbreakable e si era giunti a vette supereroistiche inarrivabili, poi Signs che era ok, poi roba un po' così, poi la follia, infine Will Smith che regala al figlio un film da protagonista. Protagonista del pubblico ludibrio da qui all'eternità.
In The Happening (che ho visto in streaming in lingua originale due giorni dopo l'uscita americana, dunque ne ho per fortuna vaghissimi ricordi ...) ci sono queste persone che, una volta avvelenate dalla tossina, si ammazzano in maniere assurde, tipo lanciandosi contro una falciatrice. 
Ninja più tizi che si suicidano in modi cruenti e senza senso.
Queste due immagini mi aiutano quando penso alla situazione politica italiana attuale.

Ah, sì.  Poi mi viene in mente che vorrei andare a vivere in un paese più serio. Tipo l'Indonesia.

Mannaggia.