martedì 15 aprile 2014

Il Cineocchio se magna tutto: tre brevi recensioni al prezzo di una per lo Spettatore Occasionale più occasionale che ci sia

Considerata la lunghezza del titolo, immagino di non dover scrivere molto nel post... Quindi cominciamo, bando alle ciance.

Il Cineocchio di Alba, costola del Nucleo, stimolante selezione di pellicole d'Autore, prosegue nella sua corsa verso -che ne so, verso qualcosa. Si capirà alla fine, immagino.

Il Cineocchio di Alba, filiazione del Nucleo, ha proposto nel periodo intercorso tra il mio ultimo post e questo qua la bellezza di quattro film quattro, il tutto quasi senza punteggiatura.
Però io solo tre ne ho visti.
Mannaggia.


Primo titolo della nostra tripartita trattazione.
Venere in pelliccia, Roman Polanski (2013)
Non facciamoci mancare niente, guardiamo insieme il trailer.


Due parole sulla trama. Un regista piuttosto fastidioso indice provini per il ruolo principale di una sua rilettura dell'opera che dà il titolo alla pellicola. Questa roba qua. Roba di sadomaso. Più maso che sado. Sado era quell'altro.Si presenta una tizia scombinatissima che -guarda caso -si chiama esattamente come la protagonista del romanzo, ha una borsa con tutti i costumi di scena e conosce a memoria le battute della struggente opera del formidale, fastidiosissimo genio di cui sopra. Chi sarà mai questa donna volgare e spudorata? Grazie per la domanda. Perché il film è tutto contenuto nella domandona che ho appena posto: chi è questa donnaccia? È Emmanuelle Seigner, moglie di Polanski, musa ispiratrice, donna fatale, [inserisci concetto analogo con altre parole, senza scadere nel turpiloquio]: prima risposta anagrafica. Dunque il film possiamo leggerlo come atto d'amore nei confronti della consorte, apprezzamento della sua straripante femminilità, culto della seduzione che la permea, desiderio di condividere con ella i fluidi corporali. Il plot è preso pari pari da un'opera teatrale di un tizio newyorkese, non ho voglia di googlarlo. Un teatro snob, autocompiaciuto, autoreferenziale e non metatestuale, un modo di concepire la scena che non condivido e un po' mi infastidisce. Il nostro ci ricasca per la terza volta, peraltro. Dopo Carnage e La Morte e la Fanciulla. Quindi, se volessimo dare una risposta più attinente alla narrazione dovremmo dire che Polanski ama un certo modo di intendere il teatro, un divertimento per fighette radical chic di 'sta ceppa, e questo film è una sua dichiarazione d'amore per esso. Cattivo, Roman. Ah, sì: ama anche quell'altra cosa (ammicca visibilmente). Tralasciamo la prima chiave interpretativa (l'inno a Emmanuelle) e ignoriamo la seconda (fan service per un teatro fine a se stesso, chic e superficiale), quale altra spiegazione possiamo dare all'ingarbugliata vicenda? La lotta tra Femminile e Maschile, l'equilibrio delle parti, la guerra tra i sessi, la capitolazione del Maschile, la violenza del Femminino Sacro, incarnata da quella danza che segue le battute del Coro delle Baccanti di Euripide. Che poi, che cosa minchia c'entra Euripide... Uno che per tutta la vita ha scritto tragedie incentrate su un nuovo modo di intendere l'Umano, uno che per tutta la vita ha concentrato la propria attenzione su un'analisi profonda, poetica dell'Uomo, sulla creazione definitiva dell'Eroe... e poi alla fine se ne esce con Le Baccanti, che è un inno alla casualità, la presa di coscienza del fatto che siamo in balia di Divinità capricciose e vendicative, un'opera che sembra dire: Dai, ok, tutte cazzate prima, la sola cosa che conta è che se a Dioniso pigliano i cinque minuti siamo marionette per il suo divertimento e fine della storia. Vi sembra una soluzione? Vi sembra un buon sistema per tirare le somme di un film che sembra non andare da nessuna parte, se non tra le [questa è meglio non scriverla] della signora Polanski?
Tipo l'immortale frase CHI AMA LA F..A METTA UNA RIGA?
Roman la riga ce l'ha messa. Però magari anche no. Magari anche qualcosetta in più della versione intellettualoide di un cinepanettone, con le citazioni fighe anziché le scoregge. Vabbè.  

NEW! 
La recensione in una parola dello Spettatore Occasionale!  
 "Seriously?"  


Secondo titolo: Stop the pounding heart, Roberto Minervini (2013)
Regia, un contributo audio-video, prego.


Mettiamo subito in chiaro che non si tratta di un film, né di un documentario. Si tratta di una via di mezzo. Minervini piazza la macchina da presa davanti a questi "personaggi" e tratteggia momenti di quotidianità. Il percorso narrativo, dunque, può apparire un po' slegato, un po' artefatto. Ma in fondo chi se ne fotte del percorso narrativo? Il regista vuole parlare di altro. Stop the pounding heart segue la vita di due comunità. La prima è costituita da fanatici religiosi come Dio comanda (ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah), la seconda da cazzoni perdigiorno il cui unico scopo nella vita è cavalcare tori. ATTENZIONE: la frase precedente non contiene doppi sensi. Minervini offre uno sguardo asciutto prima sugli integralisti di Gesù, poi sugli integralisti cavalca-tori. La comune di religiosi è un microcosmo maschilista e retrogrado, con donne e bambini tenuti volontariamente nell'ignoranza per evitare che vengano contaminati dal mondo, intenti ad allevare capre e produrre formaggi; la comune di bovari invece è votata ai classici passatempi dei sudisti, e con questo intendo tori, cavalli, steccati, gente che spara a cazzo, gente che trova divertente far fare tiro il bersaglio a ragazze incinta, gente che si mena mentre ride sotto i baffi, un ragazzetto esile che vorrebbe essere il più cool della ganga, un predicatore che dice ai cowboy di non drogarsi troppo, che se no Gesù si incazza un botto. Tipo che lui da giovane si drogava come Steven Tyler e poi se l'è vista brutta e poi Gesù gli ha detto: Mobbastaveramenteperò. Al che il nostro predicatore ha smesso di farsi e ora predica in mezzo ai bovari. Che fosse meglio drogarsi? Ai posteri l'ardua sentenza. Se l'unico elemento narrativo riscontrabile è l'incontro tra Sara (Fanatici Religiosi) con il ragazzetto (Cavalca-tori), con conseguente rimescolamento ormonale seguito da crisi spirituale per lei, e ingrifamento timido di lui, tutta la cornice definisce gabbie all'interno delle quali gli attori-persone si muovono. I bovari hanno la loro arena, con i box per gli animali, le staccionate, le reti che separano la platea dal campo dove gli animali corrono; i Fanatici hanno la porta di casa che dev'essere chiusa, la stalla che dev'essere chiusa, grandi recinti a stabilire un dentro e un fuori. E non solo: i precetti religiosi fanno il resto. Le donne devono compiacere gli uomini, le donne devono accettare di servire. Il padre tiene i figli lontani dalla scuola, lontani dal mondo, in gabbia tra mura di casa e citazioni della Bibbia. Il mondo è uno sconosciuto spauracchio; l'aggravante è che la trincea all'interno della quale i due gruppi vivono non è che un illusorio giardino dell'Eden, un luogo misero e spoglio, che sembra mostrare la propria natura di prigione solo agli occhi di Sara e del ragazzetto con i capelli unti. Ferma il batticuore, dice il titolo, e poi lo dice la madre di Sara, a un certo punto. Smetti di provare emozioni che ti conducano lontano da qui, resta in gabbia. Il terribile finale sancisce definitivamente la sconfitta dei nostri protagonisti: Sara nel recinto delle capre con indosso un abito bianco, matrimoniale, poco dopo aver assistito a una scena nella quale lei stessa diceva che mai e poi mai avrebbe preso marito. Un paradosso doloroso, che induce a immaginare Sara "sposata" a questa vita dietro le sbarre; dall'altro lato il rodeo insensato dell'altra comunità, con questi giovani che desiderano soltanto restare sulla schiena di un toro incazzato il più a lungo possibile...
Una tristezza, insomma.

La recensione in una parola poche parole dello Spettatore Occasionale!  

"Non servono sbarre per vivere in gabbia"

 
Ultimo titolo in esame: La gabbia dorata, Diego Quemada-Diez (2013)


Cercherò di continuare a fare il buffone, anche se per questo film è dura.  
La gabbia dorata è l'opera prima di Diego Quemada-Diez, già direttore della fotografia di importanti registi (tra i quali un certo Alejandro Gonzales Inarritu). Racconta di quattro ragazzi guatemaltechi che tentano di raggiungere gli Stati Uniti per iniziare una nuova vita. Quemada-Diez mescola documentario e cinema tradizionale, alternando sequenze nella quali mostra le condizioni in cui viaggiano i veri migranti americani, a scene costruite per raccontare l'avventura on the road dei protagonisti. La cesura tra i due stili è piuttosto evidente, e questo un po' azzoppa il film; non che sia faticoso da seguire, o incerto nel ritmo, piuttosto i profughi veri diventano un contorno, scenografia, e l'attenzione si sposta tutta sugli attori (bravissimi, ma pur sempre attori). Alcuni elementi tecnici della pellicola (come per esempio l'ellissi temporale rappresentata dalla neve, che si ripete per tutta la durata del film e assume un certo significato solo alla fine) tendono a rendere troppo carica l'opera di Quemada-Diez, e rischiano di distogliere l'attenzione dal nucleo di denuncia che permea quasi ogni fotogramma. Se questo è un uomo, sembra dire il regista. Se questa è una società civile...

Apro una parentesi.
Vaffanculo, Grillo.
Chiudo una parentesi.

Ma ora basta fare le pulci a La gabbia dorata. Basta perché l'impatto emozionale che ha avuto sullo Spettatore Occasionale è dirompente. Non fa niente se sembra che la violenza mostrata sia stata distribuita in maniera casuale, con picchi e assenze non sempre comprensibili; non importa se Quemada-Diez ti induce a parteggiare per l'uno o per l'altro e poi ZAC ti pugnala alle spalle e ti dice così è la vita. Quando appaiono i titoli di coda, quando Juan è lì immobile a osservare la neve dopo l'ennesima giornata spesa nella gabbia (un mattatoio di una non meglio specificata località statunitense), non c'è spazio che per la disperazione, per la rabbia, per la presa di coscienza dell'ossimoro che viviamo ogni giorno. Non importa quante menzogne ci raccontiamo, la ricchezza del nostro mondo si basa sulla fame di quell'altro.
Sì, viviamo tutti in gabbie dorate; però le nostre sono infinitamente più comode di quelle occupate dagli Altri. Altri che sono messicani, guatemaltechi, peruviani, marocchini, tunisini, cinesi... Altri che sono quelli che la Società ammassa in centri di accoglienza temporanea o respinge con armi da fuoco. Altri che non sono diversi da noi, che sono a volte buoni, altre meno buoni, altre ancora pericolosi... eppure uomini, così come lo siamo noi.
La gabbia dorata fa riflettere, e non è poco riuscire in un'impresa del genere. Se dovessi scegliere un solo titolo da suggerire tra i tre abbozzati in questo post, sceglierei quest'ultimo.
Ora non resta che attendere la seconda prova di questo promettente regista.

La recensione in una parola due parole dello Spettatore Occasionale!
 "Dolorosamente vero"

Dal Cineocchio di Alba è tutto! Fino alla prossima! Che spero non sia tipo tra sei mesi!

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