Oggi lo Spettatore Occasionale inforca occhialini tondi
da intellettuale e si accinge a parlarvi di Oldboy.
Prima di iniziare vi fornisce un’immagine degli
occhialini.
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Un must per chi ci capisce. |
E una locandina di Oldboy.
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Brividi. |
E una locandina del remake di Oldboy firmato Spike Lee, in uscita a fine anno.
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Ma che davero davero? |
Una locandina della mia faccia quando ho scoperto che
Spike Lee avrebbe realizzato un remake di Oldboy.
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Orco boia! |
Esaurita la premessa in quattro immagini (con
didascalie), passiamo al piatto forte della nostra cena: Oldboy.
Un po’ di storia.
Tra il 1996 e il 1998, sul settimanale giapponese Weekly Manga Action, viene pubblicata
una serie dal titolo Oldboy, scritta
da Garon Tsuchiya e disegnata da Nobuaki Minegishi. Questo manga ha un discreto
successo. Ci interessa? Direi di no.
Park Chan-wook, regista sudcoreano, si interessa al
concept di questo manga e ne sviluppa una versione alternativa (un po’ perché
tradurre un’opera da un linguaggio a un altro è necessariamente un tradimento,
un po’ perché il finale del manga non aveva il crescendo che Park Chan-wook
desiderava la sua opera avesse).
Il progetto del film Oldboy si inserisce in un percorso
di ricerca sul tema della vendetta (Chan-wook aveva girato in precedenza Simpathy per Mr. Vengeance e girerà successivamente Simpathy
per Lady Vengeance).
Il film vince il Grand Prix al festival di Cannes nel
2004 (presidente della giuria un certo Quentin Tarantino).
La parte didattica finisce qua, ora si passa ad alcune
considerazioni sul film (SPOILER ALERT), seguite da alcune considerazioni sul
concetto di remake, inframmezzate da alcune considerazioni sulla Tragedia Greca
e il rapporto della stessa con il cinema.
Trama (desunta da Wikipedia):
The film follows the story of one Oh Dae-su, who is locked in a hotel
room for 15 years without knowing his captor's motives. When he is finally
released, Dae-su finds himself still trapped in a web of conspiracy and
violence. His own quest for vengeance becomes tied in with romance when he
falls for an attractive sushi chef.
Oldboy, per evitare che si generi
confusione nel lettore lo scrivo subito, è un capolavoro.
Non quasi un
capolavoro o un capolavoro mancato, è
un CAZZO di CAPOLAVORO, seguito da un PUNTO.
CAPOLAVORO.
Un’affermazione del genere necessita di sostegni
concettuali e articolate spiegazioni. Vi accontento.
Partiamo da un’analisi tecnica. Chan-wook è un regista
con i controzebedei. Ha padronanza assoluta del mezzo, riesce a costruire un
tempo per il suo film che non perde un colpo, esibisce
un’architettura narrativa impeccabile e conduce per mano lo spettatore fino
sull’orlo di un abisso, costringendolo a guardare di sotto e a guardarsi
dentro.
Tanto per non incorrere nelle ire del lettore occasionale, mettiamo un bell'avviso di SPOILER. SPOILER IN ARRIVO. SPOILER GIGANTI. SPOILER TOTALI.
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BEST SPOILER ALERT EVAH, BRO' |
La fotografia del film non è patinata come quella che
sembra aver scelto Spike Lee: è densa, ma non satura. È virata su toni cupi,
scuri, su neri (il nero dei capelli, il nero della notte, il nero del vestito
di Dae-su, il nero di diversi occhiali da sole) contrapposti, durante la parte finale della pellicola, a un bianco che toglie il respiro a trasmette un senso di vertigine. La vicenda
del protagonista inizia con il nero di una notte piovosa e trova compimento
(non soluzione) in un paesaggio innevato, ovattato a abbacinante. Il bianco non
è colore che indichi purezza o celestiale ricompensa: è negazione di ogni
colore. Mentre il nero è assenza di
colore, questo bianco è negazione di ogni colore; è lo
stesso colore di Moby Dick, il colore del destino, della Nemesi, del nulla, di quell'ultima prova che l’Eroe non può superare. Un colore che è al di là del
bene e del male, che precipita l’osservatore (insieme ai personaggi) in un
inferno di congetture.
La macchina da presa non è mai frenetica; è
disciplinata, ordinata, spietata. Chan-wook muove lo sguardo con stile
chirurgico. Il caos non è dato dal movimento, ma dal contenuto delle
inquadrature.
E la composizione di ogni singola inquadratura è Arte.
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Game, Set, Match. |
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Quando Dae-su scompare, a inizio pellicola, le
rivelazione è data da un inquadratura del regalo che aveva fatto alla figlia di
quattro anni, ali d’angelo da indossare con legacci bianchi, abbandonato in
mezzo a una strada. È notte, la città è sferzata da un violento acquazzone, la
macchina da presa si solleva allargando l’inquadratura. Si parte dalle ali e si
passa alle ali in mezzo al’asfalto: il bianco, il nero, la pioggia. In quel
lento salire c’è disperazione per qualcosa che sta per accadere e un senso di
perdita irreversibile.
Le transizioni e le scene di raccordo non sono mai
scontate, ma in linea con l’estetica del film anche quando sono volutamente sopra le righe
(pur non raggiungendo gli estremi del successivo Simpathy for Lady Vengeance). La colonna sonora è adeguata, e funziona sempre come un reagente chimico che, in simbiosi con gli altri elementi, induce lo spettatore a restare, a osservare, a scavare, a partecipare. Tutto in Oldboy ha un preciso scopo, un preciso posto e una rigorosa
adesione al canone estetico imposto dal regista. I campi e controcampi della parte finale, con
Lee Woo-jiin in ascensore che, portata a termine la propria vendetta, indugia
nel ricordo della morte della sorella amante, è un poetico e disturbante
ritratto di amore incestuoso incesellato nel continuo gioco di tempi (ripresa
di Lee Soo-ah sospesa nel vuoto, controcampo su Lee Woo-jiin giovane, Lee
Soo-ah sospesa nel vuoto, controcampo Lee Woo-Jiin ORA, nel preciso momento
narrativo del film, un ricordo di carne e ossa).
La terribile parte finale di Oldboy (terribile nel senso di crudele,
non di malfatta) (crudele nel senso di Artaud, il Teatro della Crudeltà e via discorrendo) (minchia, ho messo due... tre parentesi una in fila all'altra! TRIS!) sembra uscita da una Tragedia Greca.
INTERLUDIO SULLA TRAGEDIA GRECA: Michael Bay è uno
stronzo.
In Armageddon
mette in bocca a Steve Buscemi questa frase (grossomodo): “Qui è peggio di una tragedia
greca”. Non voglio dire che è causa di Bay se la gente considera come bibbia
l’equazione TRAGEDIA GRECA=TAGLIARSI LE PALLE, però in un certo qual modo si fa
veicolo del concetto stesso. L’equivoco di fondo, secondo me, è
questo: l’interesse degli autori tragici non era sommare un certo numero di
sfighe per distruggere i protagonisti facendoli soffrire abbestia, quanto
piuttosto indagare la dimensione umana di chi viene sfidato dal Fato ad affrontare prove titaniche.
L’interesse per il dolore è proprio del patetico, non del tragico. Al patetico
interessa il tizio morente che biascica in un letto d’ospedale (il protagonista
è il dolore, non l’uomo). Al tragico interessa l’uomo di fronte al Destino. Non
è nemmeno lo stesso fottuto campionato, per intenderci.
FINE DELL’INTERLUDIO SULLA TRAGEDIA GRECA.
State bene? Tutto a posto? Vi posso offrire un cordiale?
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Ho sempre desiderato di offrirne uno. |
Molto bene, riprendiamo.
I temi della Tragedia Greca sono universali ed eterni.
La ricerca di affermazione, l’aderenza alle norme sociali, il desiderio di
sfida proprio degli uomini, la dignità, la perdita di sé data dalla scoperta di
verità difficili da gestire.
Al termine di Oldboy emergono due verità: che il
responsabile della prigionia di Dae-su amava la propria sorella, e che Dae-su
ha giaciuto con la propria figlia. Ci sono due incesti che si incrociano.
La sorella di Lee Woo-jiin si suicida, timorosa delle
conseguenze sociali che avrebbe la rivelazione del suo amore per il fratello
(Dae-su li ha visti nell’atto di consumare il loro amore durante un ozioso
pomeriggio di tanti anni prima); alla morte della sorella, Lee Woo-jiin
orchestra un piano per vendicarla e per vendicarsi di chi ritiene responsabile
di quanto successo, ovvero Dae-su. Ci sono due incesti e due vendette.
L’incesto di Dae-su è la vendetta di Lee Woo-jiin. La vendetta che Dae-su cerca
pervicacemente per tutta la pellicola, una spiegazione per la sua
incarcerazione e per i 15 anni vissuti in una cella / camera d’albergo, non può
essere consumata, e la libertà al quale viene restituito è una prigione eterna.
Dae-su viene indotto da Lee Woo-jiin ad amare la propria
figlia, e viceversa, attraverso un condizionamento mentale supportato
dall’azione di una ipnoterapeuta; nessuno dei due sa chi sia l'altro. Dae-su,
quando si trova di fronte a Lee Woo-jiin e ancora non è stato investito dalla
portata della rivelazione (e ignora i motivi che hanno spinto la propria Nemesi
a confinarlo in una cella per anni), è pronto a
battersi e a estorcere con la forza una risposta; Park.Chan-wook restituisce a
tutta questa parte una dimensione tragica assoluta.
Movimenti di macchina fluidi e minimali, inquadrature fisse, finestre e tendine
ad accompagnare la confessione di Lee.
Un continuo gioco di rimandi, di riferimenti, di vicoli
ciechi e ribaltamenti di prospettiva si dipana lungo una via che conduce al
finale, aperto alle interpretazioni (se qualcuno è interessato, se ne può
discutere nei commenti!).
La Tragedia Greca non era fondata sul colpo di scena, ed era legata a
eventi del patrimonio culturale ellenico, i Miti. Se un giorno, durante i
periodi di feste che davano spazio alle rappresentazioni teatrali, aveste
deciso di andare a vedere la nuova opera di Stokazzicos, noto drammaturgo
Ateniese, la trama in sé non vi
sarebbe interessata molto, perché il plot
già lo conoscevate. La
Tragedia era una sorta di festival del remake su larga scala;
la differenza tra questo tipo di spettacolo e il remake cinematografico è
però abissale.
Esistono due tipi di remake al cinema: un primo tipo di
carattere temporale e uno di
carattere geografico. Il primo prende
un’opera datata e la ripropone aggiornandola al periodo in cui viene girata, il
secondo prende un’opera straniera e la ripropone adattandola al proprio
pubblico e alla propria idea di cinema.
Gli americani sono campioni di remake, proprio primi in
classifica con un distacco sul secondo posto notevole. Tutti girano remake o
“adattamenti”, Russi, Cinesi, Indiani, Turchi… ma come lo fanno gli americani
non c’è nessuno. Americans do it better?
Anche no.
Esempio: spariamo alto, anzi altissimo. Qualcuno di voi
avrà sentito parlare di un vecchio film intitolato “Psycho”.
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Piacere, sono un Capolavoro. |
Psycho (1960) è un caposaldo della cinematografia di
genere, e non solo. È una pellicola moderna, ardita e disturbante, specialmente
a una seconda visione. Van Sant decide nel 1998 di realizzarne un remake; il
prodotto è una pedissequa riproposizione dell’opera ispiratrice, e quando dico
“pedissequa” intendo tipo quando da piccoli, per copiare un disegno, lo
mettevamo sotto un foglio trasparente per tracciarne i bordi. È un’operazione
inutile, sterile e risibile nel risultato.
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L'unica cosa che cambia, ragazzi miei, è la locandina. |
Perché? Perché, come diceva quel
coglione di Aristotele, “Il tutto è maggiore della somma delle sue parti”. Se
alteri tutti gli elementi del film (regista, cast, location, mezzi tecnici,
periodo storico di realizzazione) senza metterci un tuo punto di vista o una
tua personale visione del narrato, il risultato è inevitabilmente una
cagatella.
Capito Gus? Senza offesa.
Altri esempi, più brevi: The Day the Earth stood still (tradotto dai nostri impavidi
titolisti Ultimatum alla terra).
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Piacere, sono un altro Capolavoro. Ok, la locandina è così così... Però fidatevi. |
L’originale del 1951 è un’opera semplice, suggestiva e resa potente da un
messaggio pacifista che, contestualizzato e messo in relazione al momento
storico in cui è stato concepito e realizzato, è la vera forza, la vera chiave
di volta del film. The Day si
inserisce in un filone che portava avanti un discorso diverso (la Guerra Fredda
incombeva, la minaccia esterna agli USA era rappresentata nei film di SF
classici da potenze aliene ostili che incarnavano i timori dei Rossi alle
porte) e si staglia ancora oggi come coraggioso tentativo di fornire
una prospettiva diversa e un diverso esito a ciò che il cinema allora rappresentava e comunicava.
Nel 2008 Scott Derrickson decide che ora di rovinare
quel film vecchio e brutto.
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No, no, no, no, NO E NO. |
Il nostro gira una prima parte (fino a quando Keanu Reeves apre gli occhi) più che decorosa, poi la famiglia Smith e uno sceneggiatore
fatto di crack mandano tutto in vacca, si arriva al catastrofico baraccone
finale, un putrido esempio di cerchiobottismo che manda a fare in culo il
messaggio pacifista virando su un edulcorato discorso ecologista fuori posto e
infantile.
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Piacere, mi chiamo Keanu e ho la faccia di legno. |
Ci sarebbero
mille altri esempi, ma questi due film mi fanno sbroccare e non voglio andare
oltre. Che poi non è che tutti i remake siano letame, intendiamoci. Ce ne sono
anche di decorosi. Ciò che fa funzionare un remake, a mio avviso, è la scelta
di un materiale d’origine meritevole e aperto a diverse interpretazioni,
l’occhio di un regista con personalità e competenza e uno script che sappia
sviluppare i temi aderenti al nucleo narrativo dell’opera ispiratrice in una
chiave nuova e insolita.
Ci sono però
film che non hanno bisogno di remake, perché sono recenti, o perché sono
potenti, perché sono universali, perché funzionano nel loro insieme a
meraviglia ovunque li esporti.
Che ne so,
nessuno si sognerebbe di fare un remake di 2001:
Odissea nello spazio, o di Citizen
Kane. Non ce n’è bisogno, sarebbe un atto oltraggioso e un suicidio
artistico per chi avesse la hybris
di provarci.
I Greci
avevano un limitato bacino di soggetti (limitato per modo di dire): i
principali Miti ruotano attorno a famiglie di rango e a eventi fondanti il mondo come i Greci lo conoscevano. Un buon autore prendeva
un soggetto (mettiamo Antigone), si atteneva al plot prestabilito (con
eventuali minime variazioni dovute alla rielaborazione del mito secondo
tradizioni, città di provenienza, influenze di altri miti) e forniva il proprio
personale sguardo su quel mito. In un certo senso il soggetto diventava
anche contenitore di altro. E più un autore era capace, più riusciva nell’impresa di
impreziosire la propria opera con riferimenti e riflessioni che erano vicine al
mito ma personali, che da esso dipartivano per tracciare panorami nuovi,
analisi profonde, stimoli intellettuali diversi per gli spettatori.
Veniamo a
Spike Lee.
Spike Lee
non mi sta sul cazzo, non scherziamo. Gli perdono anche tutto il pistolotto su
Django, roba insensata che puzzava di trovata pubblicitaria a ottomila
chilometri di distanza. La 25° ora è
un lavoro magistrale, toccante, una regia compatta, una storia di abbandono e
di salvezza, un ritratto nostalgico e problematico sulla New York ferita
dall’11 settembre. Inside man un
giocattolone trascinante, sorretto da un Denzel Washington superlativo e un
doloroso e geniale Clive Owen. Andando ancora più indietro ne ha fatte di cose
belle, il ragazzo.
Ora però mi
permetto una domanda:
Spike, amico
mio, ragazzaccio con l’animo di un poeta e la tasca del multimilionario…
perché? Perché Oldboy? Che bisogno
c’era?
Innanzitutto,
come si configurerà tutta la vicenda dell’incesto doppio nella tua visione
americana del Mito? Come uscirà dalla tua macchina da presa un prodotto che
deve gran parte del suo successo al meccanismo narrativo che deflagra,
inatteso, nel finale?
Sarebbe un
po’ come rifare I soliti sospetti e
mettere sulla locandina, davanti al
cinema, la scritta: “Occhio allo zoppo!”. Immagino che qualcosina del film andrebbe perduto. Tipo la riuscita.
Fornire una
personale visione di Oldboy ci sta.
Prendi il fumetto, ignori il film di Park Chan-wook e vai per la tua strada,
raccontando il tuo Josh Brolin intrappolato, il tuo Samuel L. Jackson viscido e
così via. Però, se già mi metti nel trailer il baule e Brolin che esce da lì,
cazzo, già mi fai l’occhiolino, mi dai di gomito, ammicchi, mi vuoi far capire
che ti è piaciuto quel film, che lo stai omaggiando...
Ci metterai
anche il piano sequenza del martello?
Dimmi di no.
Dimmi che mi sbaglio, che non stai facendo una fotocopia sbiadita della
Gioconda per poi tentare di convincermi che sei un ottimo pittore… No,
Spike.
Spero di uscire
dalla sala stupito. Di uscire e dire a me stesso: Sei il solito pessimista, alla fine non era così male.
Spero di
uscire dalla sala, correre a casa e scrivere un post dal titolo: Lo Spettatore Occasionale è un coglione
patentato.
Qualcosa mi
dice che forse non sarà così. Ma alla fine voglio darti un po’ di fiducia, un
trenta per cento di fiducia, dai.
Restituiscimi
la vertigine tragica di Park Chan-wook, quello sguardo finale nell’abisso, quel
bianco assoluto e annichilente, fammi provare metà delle sensazioni che il
coreano mi ha trasmesso e torneremo amici.
Se però
fallisci e mandi tutto in vacca, chiamo Quentin e veniamo lì da te a farti i
dispetti.
Samuel ha
detto che ci sta.
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Cioè, fammi capire. Giro un film contro la schiavitù, un film che ridicolizza l'America delle violenze razziali, dipinge come mostri gli schiavisti e, metaforicamente, vendica gli schiavi tramutandoli in Eroi... E tu mi dici che sono razzista? |
Occhio,
quindi. Sono uno spettatore esigente. Spero tu sia un REMAKER in grado di sbalordirmi.