giovedì 5 settembre 2013

Lo Spettatore Occasionale presenta: Oldboy, Oldboy 2.0, la Tragedia Greca, Spike e l'arte di remakare


Oggi lo Spettatore Occasionale inforca occhialini tondi da intellettuale e si accinge a parlarvi di Oldboy.
Prima di iniziare vi fornisce un’immagine degli occhialini.

Un must per chi ci capisce.


E una locandina di Oldboy.



Brividi.


E una locandina del remake di Oldboy firmato Spike Lee, in uscita a fine anno.

Ma che davero davero?


Una locandina della mia faccia quando ho scoperto che Spike Lee avrebbe realizzato un remake di Oldboy.

Orco boia!


Esaurita la premessa in quattro immagini (con didascalie), passiamo al piatto forte della nostra cena: Oldboy.
Un po’ di storia.
Tra il 1996 e il 1998, sul settimanale giapponese Weekly Manga Action, viene pubblicata una serie dal titolo Oldboy, scritta da Garon Tsuchiya e disegnata da Nobuaki Minegishi. Questo manga ha un discreto successo. Ci interessa? Direi di no.
Park Chan-wook, regista sudcoreano, si interessa al concept di questo manga e ne sviluppa una versione alternativa (un po’ perché tradurre un’opera da un linguaggio a un altro è necessariamente un tradimento, un po’ perché il finale del manga non aveva il crescendo che Park Chan-wook desiderava la sua opera avesse).
Il progetto del film Oldboy si inserisce in un percorso di ricerca sul tema della vendetta (Chan-wook aveva girato in precedenza Simpathy per Mr. Vengeance e girerà successivamente Simpathy per Lady Vengeance).
Il film vince il Grand Prix al festival di Cannes nel 2004 (presidente della giuria un certo Quentin Tarantino).
La parte didattica finisce qua, ora si passa ad alcune considerazioni sul film (SPOILER ALERT), seguite da alcune considerazioni sul concetto di remake, inframmezzate da alcune considerazioni sulla Tragedia Greca e il rapporto della stessa con il cinema.

Trama (desunta da Wikipedia):


The film follows the story of one Oh Dae-su, who is locked in a hotel room for 15 years without knowing his captor's motives. When he is finally released, Dae-su finds himself still trapped in a web of conspiracy and violence. His own quest for vengeance becomes tied in with romance when he falls for an attractive sushi chef. 



Oldboy, per evitare che si generi confusione nel lettore lo scrivo subito, è un capolavoro.
Non quasi un capolavoro o un capolavoro mancato, è un CAZZO di CAPOLAVORO, seguito da un PUNTO.
CAPOLAVORO.
Un’affermazione del genere necessita di sostegni concettuali e articolate spiegazioni. Vi accontento.
Partiamo da un’analisi tecnica. Chan-wook è un regista con i controzebedei. Ha padronanza assoluta del mezzo, riesce a costruire un tempo per il suo film che non perde un colpo, esibisce un’architettura narrativa impeccabile e conduce per mano lo spettatore fino sull’orlo di un abisso, costringendolo a guardare di sotto e a guardarsi dentro.

Tanto per non incorrere nelle ire del lettore occasionale, mettiamo un bell'avviso di SPOILER. SPOILER IN ARRIVO. SPOILER GIGANTI. SPOILER TOTALI.

BEST SPOILER ALERT EVAH, BRO'

La fotografia del film non è patinata come quella che sembra aver scelto Spike Lee: è densa, ma non satura. È virata su toni cupi, scuri, su neri (il nero dei capelli, il nero della notte, il nero del vestito di Dae-su, il nero di diversi occhiali da sole) contrapposti, durante la parte finale della pellicola, a un bianco che toglie il respiro a trasmette un senso di vertigine. La vicenda del protagonista inizia con il nero di una notte piovosa e trova compimento (non soluzione) in un paesaggio innevato, ovattato a abbacinante. Il bianco non è colore che indichi purezza o celestiale ricompensa: è negazione di ogni colore. Mentre il nero è assenza di colore, questo bianco è negazione di ogni colore; è lo stesso colore di Moby Dick, il colore del destino, della Nemesi, del nulla, di quell'ultima prova che l’Eroe non può superare. Un colore che è al di là del bene e del male, che precipita l’osservatore (insieme ai personaggi) in un inferno di congetture.
La macchina da presa non è mai frenetica; è disciplinata, ordinata, spietata. Chan-wook muove lo sguardo con stile chirurgico. Il caos non è dato dal movimento, ma dal contenuto delle inquadrature. 
E la composizione di ogni singola inquadratura è Arte.

Game, Set, Match.

Quando Dae-su scompare, a inizio pellicola, le rivelazione è data da un inquadratura del regalo che aveva fatto alla figlia di quattro anni, ali d’angelo da indossare con legacci bianchi, abbandonato in mezzo a una strada. È notte, la città è sferzata da un violento acquazzone, la macchina da presa si solleva allargando l’inquadratura. Si parte dalle ali e si passa alle ali in mezzo al’asfalto: il bianco, il nero, la pioggia. In quel lento salire c’è disperazione per qualcosa che sta per accadere e un senso di perdita irreversibile.
Le transizioni e le scene di raccordo non sono mai scontate, ma in linea con l’estetica del film anche quando sono volutamente sopra le righe (pur non raggiungendo gli estremi del successivo Simpathy for Lady Vengeance). La colonna sonora è adeguata, e funziona sempre come un reagente chimico che, in simbiosi con gli altri elementi, induce lo spettatore a restare, a osservare, a scavare, a partecipare. Tutto in Oldboy ha un preciso scopo, un preciso posto e una rigorosa adesione al canone estetico imposto dal regista. I campi e controcampi della parte finale, con Lee Woo-jiin in ascensore che, portata a termine la propria vendetta, indugia nel ricordo della morte della sorella amante, è un poetico e disturbante ritratto di amore incestuoso incesellato nel continuo gioco di tempi (ripresa di Lee Soo-ah sospesa nel vuoto, controcampo su Lee Woo-jiin giovane, Lee Soo-ah sospesa nel vuoto, controcampo Lee Woo-Jiin ORA, nel preciso momento narrativo del film, un ricordo di carne e ossa).
La terribile parte finale di Oldboy (terribile nel senso di crudele, non di malfatta) (crudele nel senso di Artaud, il Teatro della Crudeltà e via discorrendo) (minchia, ho messo due... tre parentesi una in fila all'altra! TRIS!) sembra uscita da una Tragedia Greca.

INTERLUDIO SULLA TRAGEDIA GRECA: Michael Bay è uno stronzo.
In Armageddon mette in bocca a Steve Buscemi questa frase (grossomodo): “Qui è peggio di una tragedia greca”. Non voglio dire che è causa di Bay se la gente considera come bibbia l’equazione TRAGEDIA GRECA=TAGLIARSI LE PALLE, però in un certo qual modo si fa veicolo del concetto stesso. L’equivoco di fondo, secondo me, è questo: l’interesse degli autori tragici non era sommare un certo numero di sfighe per distruggere i protagonisti facendoli soffrire abbestia, quanto piuttosto indagare la dimensione umana di chi viene sfidato dal Fato ad affrontare prove titaniche. L’interesse per il dolore è proprio del patetico, non del tragico. Al patetico interessa il tizio morente che biascica in un letto d’ospedale (il protagonista è il dolore, non l’uomo). Al tragico interessa l’uomo di fronte al Destino. Non è nemmeno lo stesso fottuto campionato, per intenderci.
FINE DELL’INTERLUDIO SULLA TRAGEDIA GRECA.

State bene? Tutto a posto? Vi posso offrire un cordiale?

Ho sempre desiderato di offrirne uno.
 Molto bene, riprendiamo.

I temi della Tragedia Greca sono universali ed eterni. La ricerca di affermazione, l’aderenza alle norme sociali, il desiderio di sfida proprio degli uomini, la dignità, la perdita di sé data dalla scoperta di verità difficili da gestire.
Al termine di Oldboy emergono due verità: che il responsabile della prigionia di Dae-su amava la propria sorella, e che Dae-su ha giaciuto con la propria figlia. Ci sono due incesti che si incrociano.
La sorella di Lee Woo-jiin si suicida, timorosa delle conseguenze sociali che avrebbe la rivelazione del suo amore per il fratello (Dae-su li ha visti nell’atto di consumare il loro amore durante un ozioso pomeriggio di tanti anni prima); alla morte della sorella, Lee Woo-jiin orchestra un piano per vendicarla e per vendicarsi di chi ritiene responsabile di quanto successo, ovvero Dae-su. Ci sono due incesti e due vendette. L’incesto di Dae-su è la vendetta di Lee Woo-jiin. La vendetta che Dae-su cerca pervicacemente per tutta la pellicola, una spiegazione per la sua incarcerazione e per i 15 anni vissuti in una cella / camera d’albergo, non può essere consumata, e la libertà al quale viene restituito è una prigione eterna.
Dae-su viene indotto da Lee Woo-jiin ad amare la propria figlia, e viceversa, attraverso un condizionamento mentale supportato dall’azione di una ipnoterapeuta; nessuno dei due sa chi sia l'altro. Dae-su, quando si trova di fronte a Lee Woo-jiin e ancora non è stato investito dalla portata della rivelazione (e ignora i motivi che hanno spinto la propria Nemesi a confinarlo in una cella per anni), è pronto a battersi e a estorcere con la forza una risposta; Park.Chan-wook restituisce a tutta questa parte una dimensione tragica assoluta. Movimenti di macchina fluidi e minimali, inquadrature fisse, finestre e tendine ad accompagnare la confessione di Lee.
Un continuo gioco di rimandi, di riferimenti, di vicoli ciechi e ribaltamenti di prospettiva si dipana lungo una via che conduce al finale, aperto alle interpretazioni (se qualcuno è interessato, se ne può discutere nei commenti!).

La Tragedia Greca non era fondata sul colpo di scena, ed era legata a eventi del patrimonio culturale ellenico, i Miti. Se un giorno, durante i periodi di feste che davano spazio alle rappresentazioni teatrali, aveste deciso di andare a vedere la nuova opera di Stokazzicos, noto drammaturgo Ateniese, la trama in sé non vi sarebbe interessata molto, perché il plot già lo conoscevate. La Tragedia era una sorta di festival del remake su larga scala; la differenza tra questo tipo di spettacolo e il remake cinematografico è però abissale.
Esistono due tipi di remake al cinema: un primo tipo di carattere temporale e uno di carattere geografico. Il primo prende un’opera datata e la ripropone aggiornandola al periodo in cui viene girata, il secondo prende un’opera straniera e la ripropone adattandola al proprio pubblico e alla propria idea di cinema.
Gli americani sono campioni di remake, proprio primi in classifica con un distacco sul secondo posto notevole. Tutti girano remake o “adattamenti”, Russi, Cinesi, Indiani, Turchi… ma come lo fanno gli americani non c’è nessuno. Americans do it better?
Anche no.
Esempio: spariamo alto, anzi altissimo. Qualcuno di voi avrà sentito parlare di un vecchio film intitolato “Psycho”.

Piacere, sono un Capolavoro.


Psycho (1960) è un caposaldo della cinematografia di genere, e non solo. È una pellicola moderna, ardita e disturbante, specialmente a una seconda visione. Van Sant decide nel 1998 di realizzarne un remake; il prodotto è una pedissequa riproposizione dell’opera ispiratrice, e quando dico “pedissequa” intendo tipo quando da piccoli, per copiare un disegno, lo mettevamo sotto un foglio trasparente per tracciarne i bordi. È un’operazione inutile, sterile e risibile nel risultato. 

L'unica cosa che cambia, ragazzi miei, è la locandina.


Perché? Perché, come diceva quel coglione di Aristotele, “Il tutto è maggiore della somma delle sue parti”. Se alteri tutti gli elementi del film (regista, cast, location, mezzi tecnici, periodo storico di realizzazione) senza metterci un tuo punto di vista o una tua personale visione del narrato, il risultato è inevitabilmente una cagatella.
Capito Gus? Senza offesa.
Altri esempi, più brevi: The Day the Earth stood still (tradotto dai nostri impavidi titolisti Ultimatum alla terra). 

Piacere, sono un altro Capolavoro. Ok, la locandina è così così... Però fidatevi.


L’originale del 1951 è un’opera semplice, suggestiva e resa potente da un messaggio pacifista che, contestualizzato e messo in relazione al momento storico in cui è stato concepito e realizzato, è la vera forza, la vera chiave di volta del film. The Day si inserisce in un filone che portava avanti un discorso diverso (la Guerra Fredda incombeva, la minaccia esterna agli USA era rappresentata nei film di SF classici da potenze aliene ostili che incarnavano i timori dei Rossi alle porte) e si staglia ancora oggi come coraggioso tentativo di fornire una prospettiva diversa e un diverso esito a ciò che il cinema allora rappresentava e comunicava.
Nel 2008 Scott Derrickson decide che ora di rovinare quel film vecchio e brutto. 

No, no, no, no, NO E NO.


Il nostro gira una prima parte (fino a quando Keanu Reeves apre gli occhi) più che decorosa, poi la famiglia Smith e uno sceneggiatore fatto di crack mandano tutto in vacca, si arriva al catastrofico baraccone finale, un putrido esempio di cerchiobottismo che manda a fare in culo il messaggio pacifista virando su un edulcorato discorso ecologista fuori posto e infantile. 

Piacere, mi chiamo Keanu e ho la faccia di legno.


Ci sarebbero mille altri esempi, ma questi due film mi fanno sbroccare e non voglio andare oltre. Che poi non è che tutti i remake siano letame, intendiamoci. Ce ne sono anche di decorosi. Ciò che fa funzionare un remake, a mio avviso, è la scelta di un materiale d’origine meritevole e aperto a diverse interpretazioni, l’occhio di un regista con personalità e competenza e uno script che sappia sviluppare i temi aderenti al nucleo narrativo dell’opera ispiratrice in una chiave nuova e insolita.
Ci sono però film che non hanno bisogno di remake, perché sono recenti, o perché sono potenti, perché sono universali, perché funzionano nel loro insieme a meraviglia ovunque li esporti.
Che ne so, nessuno si sognerebbe di fare un remake di 2001: Odissea nello spazio, o di Citizen Kane. Non ce n’è bisogno, sarebbe un atto oltraggioso e un suicidio artistico per chi avesse la hybris di provarci.
I Greci avevano un limitato bacino di soggetti (limitato per modo di dire): i principali Miti ruotano attorno a famiglie di rango e a eventi fondanti il mondo come i Greci lo conoscevano. Un buon autore prendeva un soggetto (mettiamo Antigone), si atteneva al plot prestabilito (con eventuali minime variazioni dovute alla rielaborazione del mito secondo tradizioni, città di provenienza, influenze di altri miti) e forniva il proprio personale sguardo su quel mito. In un certo senso il soggetto diventava anche contenitore di altro. E più un autore era capace, più riusciva nell’impresa di impreziosire la propria opera con riferimenti e riflessioni che erano vicine al mito ma personali, che da esso dipartivano per tracciare panorami nuovi, analisi profonde, stimoli intellettuali diversi per gli spettatori.
Veniamo a Spike Lee.
Spike Lee non mi sta sul cazzo, non scherziamo. Gli perdono anche tutto il pistolotto su Django, roba insensata che puzzava di trovata pubblicitaria a ottomila chilometri di distanza. La 25° ora è un lavoro magistrale, toccante, una regia compatta, una storia di abbandono e di salvezza, un ritratto nostalgico e problematico sulla New York ferita dall’11 settembre. Inside man un giocattolone trascinante, sorretto da un Denzel Washington superlativo e un doloroso e geniale Clive Owen. Andando ancora più indietro ne ha fatte di cose belle, il ragazzo.
Ora però mi permetto una domanda:
Spike, amico mio, ragazzaccio con l’animo di un poeta e la tasca del multimilionario… perché? Perché Oldboy? Che bisogno c’era?
Innanzitutto, come si configurerà tutta la vicenda dell’incesto doppio nella tua visione americana del Mito? Come uscirà dalla tua macchina da presa un prodotto che deve gran parte del suo successo al meccanismo narrativo che deflagra, inatteso, nel finale?
Sarebbe un po’ come rifare I soliti sospetti e mettere sulla locandina,  davanti al cinema, la scritta: “Occhio allo zoppo!”. Immagino che qualcosina del film andrebbe perduto. Tipo la riuscita. 

Fornire una personale visione di Oldboy ci sta. Prendi il fumetto, ignori il film di Park Chan-wook e vai per la tua strada, raccontando il tuo Josh Brolin intrappolato, il tuo Samuel L. Jackson viscido e così via. Però, se già mi metti nel trailer il baule e Brolin che esce da lì, cazzo, già mi fai l’occhiolino, mi dai di gomito, ammicchi, mi vuoi far capire che ti è piaciuto quel film, che lo stai omaggiando...
Ci metterai anche il piano sequenza del martello?
Dimmi di no. Dimmi che mi sbaglio, che non stai facendo una fotocopia sbiadita della Gioconda per poi tentare di convincermi che sei un ottimo pittore… No, Spike.
Spero di uscire dalla sala stupito. Di uscire e dire a me stesso: Sei il solito pessimista, alla fine non era così male.
Spero di uscire dalla sala, correre a casa e scrivere un post dal titolo: Lo Spettatore Occasionale è un coglione patentato.
Qualcosa mi dice che forse non sarà così. Ma alla fine voglio darti un po’ di fiducia, un trenta per cento di fiducia, dai.
Restituiscimi la vertigine tragica di Park Chan-wook, quello sguardo finale nell’abisso, quel bianco assoluto e annichilente, fammi provare metà delle sensazioni che il coreano mi ha trasmesso e torneremo amici.
Se però fallisci e mandi tutto in vacca, chiamo Quentin e veniamo lì da te a farti i dispetti.
Samuel ha detto che ci sta.

Cioè, fammi capire. Giro un film contro la schiavitù, un film che ridicolizza l'America delle violenze razziali, dipinge come mostri gli schiavisti e, metaforicamente, vendica gli schiavi tramutandoli in Eroi... E tu mi dici che sono razzista?


Occhio, quindi. Sono uno spettatore esigente. Spero tu sia un REMAKER in grado di sbalordirmi.

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